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11 settembre 2001

Pubblicato il 22 settembre 2002 da Alessandro Izzi


11 settembre 2001

L’11 settembre è stato uno shock culturale di proporzioni incredibili: il momento in cui la nostra coscienza occidentale si è trovata nell’obbligo morale materiale di doversi confrontare, una volta per tutte, con una realtà che fino a quel momento era stata evitata o rimossa. Ma è stata, anche, una tragedia di enorme portata le cui ripercussioni, nella nostra vita, come nella nostra politica, sono ancora lungi dal potersi considerare esaurite.

L’idea di produrre un film che fosse, non semplicemente una celebrazione, ma anche una vera e propria riflessione critica su quei tragici momenti era di per sé molto pericolosa, anche perché l’evento aveva immediatamente perso la sua carica tragica, per essere ridotto al rango di pura e semplice immagine, di un flusso indiscriminato di pixel sulla superficie delle nostre pupille attonite. Il milione di telecamere/occhio puntate sul crollo delle nostre coscienze borghesi aveva, con le sue riprese in diretta, a tal punto destrutturato gli eventi da determinare un vero e proprio montaggio cinematografico senza che ci fosse un montatore, ottenendo l’effetto di ridurre la tragedia, proprio nel momento in cui si compiva, in mito. E scavare tra le incrostazioni che si sono depositate come macerie metaforiche sulle macerie delle due torri non è certo facile. Non meno pericolosa era l’idea di assegnare il compito a ben undici registi (di diverse estrazioni culturali e religiose e provenienti da diverse parti del mondo) obbligandoli a produrre piccoli corti della durata fissa di soli 11’ 09’’ e 01 frame. Eppure, nonostante la diversità dei talenti impiegati, che determina una necessaria discontinuità che alterna episodi spesso molti ispirati ad altri più piatti, il risultato finale appare molto più convincente di quanto si sarebbe potuto immaginare.

Il Cinema si pone, quindi, di fronte ai fatti dell’11 settembre con una serie di sguardi che, per un momento, bloccano quel profluvio di immagini che ci hanno investito durante e dopo l’orrore imponendosi con la disciplina di un pensiero che si interroga infinitamente sulla sua stessa utilità. Non un film denuncia, quindi, non un film memoria, non un film finzione, ma un film domanda che non si attende altra risposta che un silenzio commosso.

Il silenzio che si chiude, come un sudario, sulle esistenze di molti personaggi, isolandoli di fronte all’immane tragedia che assume per questo proporzioni abissalmente intime, come nel caso della protagonista del segmento di Lelouch, una donna sorda, che non può sentire la ridda di informazioni che si succedono nel tentativo di commentare l’evento, o che suggella il pianto silenzioso che accompagna la manifestazione del bellissimo corto di Tanovic. Il silenzio che altro non è che l’insieme di tutte le voci del mondo.

Le voci. Quelle dei giornalisti che cercano di raccontare l’inenarrabile, che diffondono la notizia nel mondo, ma che non riescono, comunque, ad arrivare nel cuore del bambini afgani che presto pagheranno le più amare conseguenze (è l’episodio di Makhmalbaf). Le voci che si affollano come una ridda polifonica nel segmento di Gonzalez Inarritu, che annega il proliferare indifferenziato di immagini circolate sull’11 settembre in un monumentale schermo nero, squarciato solo a tratti da qualche fotogramma atroce, in una negazione radicale della possibilità di rendere in immagini la tragedia e l’orrore del Vuoto.

Il Vuoto: quello lasciato dalle due torri, ma anche quello rimasto impresso nelle nostre coscienze. Quello che provano le donne senza i loro mariti (lontani in guerra) nel corto di Tanovic e quello che percepisce il protagonista dell’episodio di Sean Penn che, affettuosamente, vive con il ricordo di una moglie morta, accarezzandone i vestiti, vuoti ed informi, adagiati sul letto, e parlando con loro. Un vuoto incolmabile che viene portato alla luce, nella coscienza dell’uomo, proprio dal crollo delle due torri e che neanche la Parola, come portatrice di senso, riesce più a colmare.

La parola che riporta, in tutti i corti, sempre all’idea dell’assommarsi di tanti monologhi, di discorsi che passano del tutto inascoltati, come quelli tra il mondo civilizzato e il terzo mondo che vengono riprodotti in piccolo nella storia dei due amanti di Lelouch, nella lettera mai letta del memorabile episodio di Loach (il più bello) e nelle amorevoli parole che il marito rivolge al fantasma della moglie nel già citato corto di Penn. Una parola divisiva che non può non generare dissidi.

Dissidi che sono interni allo stesso film, che mette in campo autori islamici e americani (le due parti “nemiche”, quindi), ma che sono anche interni alle coscienze, come le voci di fantasmi di soldati morti, delle varie fazioni, che dialogano con Cahine nel suo corto.

Dopo il crollo. Quanto le cose siano cambiate dopo il crollo delle Torri gemelle è difficile dire. La ricerca del capro espiatorio, identificato nelle figura di Bin Laden ha assunto, fin da subito delle dimensioni grottesche, ben messe in evidenza da Ouedrago nel suo divertente corto. Certo è che abbiamo capito veramente poco dagli attentati dell’11 settembre. E abbiamo presto dimenticato questa immane tragedia come avevamo dimenticato tutte le tragedie che lo avevano preceduto.

Gli altri 11 settembre non sono tanto quelli che elenca la cronista del brutto corto di Gitai, quanto piuttosto quello doloroso e contradditorio della fine della democrazia cilena messa in scena nel miracoloso corto di Loach. Un 11 settembre pilotato da aerei americani, una data che ci porta alla domanda che aveva chiuso il corto di Gonzalez Inarritu:

La luce di Dio ci guida o ci acceca?


CAST & CREDITS

Regie: Samira Makhmalbaf, Claude Lelouch, Youssef Chahine, Denis Tanovic, Idrissa Oudrago, Ken Loach, Alejandro Gonzalez Inarritu, Amos Gitai, Mira Nair, Sean Penn, Shohei Imamura; produzione: Galatee Films, Studiocanal; distribuzione: BIM


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