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13 Assassins

Pubblicato il 27 giugno 2011 da Giampiero Francesca


13 Assassins

Prendete una manciata di film, pellicole d’oriente e d’occidente, duelli in cappa e spada o fra pistoleri del west, vecchi classici e nuove tendenze, mescolate con sapienza ed ironia ed otterrete 13 Assassins. “Rubando”, per usare un termine caro a Tarantino, dalla storia del cinema, Takashi Miike costruisce una pellicola che gioca con i generi, dimostrandosi in grado, proprio come il regista di Pulp Fiction e Kill Bill, di aderire pedissequamente ai canoni tradizionali quanto di stravolgerli. Il tutto, ovviamente, senza mai perdere unità e scorrevolezza narrativa.

Tradizione e innovazione dunque sono le cifre stilistiche di 13 Assassins. Tradizione nella scrittura dei caratteri in scena, una sporca dozzina più uno formata dai più abili ronin dell’intero Giappone. Tradizionale nella manichea divisione fra bene e male, buoni e cattivi in un mondo in cui non esistono i toni grigi e gli onesti e retti tredici guerrieri si battono per i più alti ideali contro un esercito di stupratori, torturatori ed assassini violenti e immorali. Tradizionale nel racconto dettagliato della società degli shogun, nella descrizioni di tradizioni, luoghi e personaggi, nella rappresentazione minuziosa dell’era Tokugawa. Un racconto tradizionale dunque che viene però improvvisamente interrotto e stravolto nella parte finale della pellicola, lasciando spazio, dopo più di un’ora di rigida adesione ai canoni classici, ad un’ironica rivisitazione del genere. Così accade che il tredicesimo assassino, un contadino rozzo sceso dalle montagne, beffeggi i più nobili samurai per la loro fragilità sul campo di battaglia insinuando che le ferite inferte dai soldati dello shogun non sono nulla se paragonate a quelle di orso selvatico. Nel fatidico scontro finale dunque, la fantasia e il ludibrio di Miike prendono il sopravvento trasformando la battaglia dei centoquarantacinque soldati in un lungo e divertente balletto. Un balletto che, diversamente dal resto della pellicola, prende le distanze da tutte le forme e i generi precedenti (in special modo proprio dal chambara) fino a beffeggiare direttamente i canoni che li compongono.

Miike e i suoi magnifici tredici strizzano dunque l’occhio alla tradizione, al maestro Akira Kurosawa (come non riconoscere nel protagonista, Shinzaemon Shimada / Kôji Yakusho, la copia del nuovo millennio di quel Kikuchiyo / Toshiro Mifune del 1954 ), al cinema western e al chambara. In pieno spirito postmoderno però Miike mescola le carte, confondendo, l’uno nell’altro, generi e forme del cinema classico. Un lavoro di taglio e cucito che trasforma citazioni, riferimenti, interi brani e parti di altre pellicole in un prodotto nuovo e a se stante. Con l’abilità di un grande registra Miike costruisce così un patchwork di personaggi e situazioni senza far però mai realmente sentire la mano del sarto che le ha cucite insieme. Una mano che non si percepisce neanche quando, come nel finale, il racconto si stacca dai canoni classici ironizzando su di essi, tanto è ben mescolata e combinata l’amalgama di questa pellicola.


CAST & CREDITS

(Jûsan-nin no shikaku); Regia: Takashi Miike; sceneggiatura: Takashi Miike, Daisuke Tengan; fotografia: Nobuyasu Kita; montaggio: Kenji Yamashita; interpreti: Takayuki Yamada, Kôji Yakusho, Yûsuke Iseya, Gorô Inagaki, Masachika Ichimura, Mikijiro Hira, Hiroki Matsukata, Ikki Sawamura; origine: Giappone., 2010; durata: 126’


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