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2046

Pubblicato il 22 novembre 2004 da Alessandro Borri


2046

Criticare 2046? Come si fa? Meglio fare altro. Tentare di definire, per esempio. 2046 o il rondò delle dimenticanze. Si fugge dal ricordo, e si è a lui incatenati, come ai propri segreti. Perché la memoria è un posto nel futuro da cui tutti vogliono andare via (in primis gli hongkonghesi, per cui questa nuova scadenza inizia a farsi anti-utopico mito nelle coscienze), su un treno che inverta il vettore del tempo, ma su cui il tempo continua implacabile a regnare (10-100-1000 ore implacabilmente dopo). Perché la giocatrice non vuole rivelare il passato celato dietro gli assi vincenti; perché Carina Lau dal doppio nome (Lulu/Mimi, arrivata diritta da Days of Being Wild) non riconosce suo marito Leung Chiu-wai? Perché Wong Kar-wai ha ben presente Resnais, ma è accorto nel modulare le sue voice over come guide specchianti nei labirinti emozionati (e differiti) della temporalità, cosicché - allo stesso modo che in Ashes of Time - ci si perde con gratitudine, senza smarrire la strada di ritorno, quella che riconduce al mai appagato cuore degli uomini. 2046 o la poesia degli interstizi. Ancor più che per la sonatina in minore di In the Mood for Love, per il suo narcotico e smisurato sequel orchestrale per pianto e archi vale la regola che tutto ciò che è sullo schermo vive grazie a quello che è intrappolato nelle intercapedini apertavi dalle ellissi, oltre che nella messe di pellicola rimasta sul pavimento della moviola, nel solco tra l’improvvisata versione cannense e quella definitiva (?) uscita nelle sale, nelle scelte sollecitate da ogni bivio della leggendaria lavorazione, tanto per rammentare che uno dei riferimenti meno sollevati ma più pregnanti quando si parla di Wong è Terrence Malick, quello de La sottile linea rossa, nel caso. Tra una scena e l’altra, tra una vigilia e l’altra, tra uno scrutare e l’altro oltre stipiti e specchi, precipitano altrettanti pianti, occhiate, amplessi, ipotesi di film possibili e virtualmente inesauribili, se non in sogno, in assenza. 2046 o il luogo dove tutti i luoghi di Wong (in)finiscono. Le opere precendenti vi aleggiano dentro quali spettri di luce e vi si reincarnano continuamente, in un rendez vous di frammenti seminati, raddoppiati, reimpaginati e alfine trasfigurati. Il giocatore rimasto in potenza nell’ultima scena di Days of Being Wild diventa la Gong Li di nero guantata. Il carrello laterale in ralenti di Leung spadaccino cieco che va a morire in Ashes of Time è doppiato da quello che lo segue nel suo addio singaporiano, e l’amore di una volta che interferisce su tutto ciò che verrà è sempre Maggie Cheung. Torna anche lo step framing di Hong Kong Express e le due donne dal nome identico. Mentre di In the Mood certe esatte ambientazioni e inquadrature (quel muro scrostato e scartavetrato dalle piogge, quel taxi notturno dai contatti appena sussurrati) si ripresentano a ossessionare i nuovi amori di Leung, in particolare la mutevole Zhang Ziyi. 2046 o la sopravvivenza delle icone. A costo di una loro necessaria estenuazione. Siamo decisamente oltre ogni strategia postmoderna e ipermélo. Quel che in questo inno al deja vu viene evocato è il fantasma del cinema tout court, magari la sua rimembranza postuma. L’ultimo cinema possibile per Wong è una suite lounge di puro design: design di anime trasposte in fuochi d’artificio di scarpe, acconciature, fili di fumo, lumi, baffetti, lacrime, leitmotiv. Ma Wong ha anche il dono, che è dei grandi, di trovare nuova luce nei corpi attoriali che mette in campo: vestendo Faye Wong di malinconie imprevedibili, indorando Leung di un glam senza tempo, riuscendo persino a fascinare Gong Li (ed è tutto dire). L’ultimo divismo possibile per Wong è una sfilata di simulacri che non possono che rimandare ad altre presenze, smerigliandosi in abisso fino all’ultimo, impalpabile riflesso. 2046 o lo spettacolo di un artefice felicemente smarritosi nei propri intenti, impegnato a cavare dal flusso atomico di sensazioni che la sua ispirazione gli fornisce senza tregua un percorso che ancora si possa chiamare film. Quello che impressiona è come queste due ore di bellezza assoluta che perseguono in modo anche irritante la sublimità sconvolgano nel profondo. Quanto questo manierismo che si emoziona di se stesso dica di noi. Perché 2046 è le impermanenze dell’amore. Niente dura. Il sempre è un concetto fuori dall’orizzonte degli eventi, o del pensiero. Tutte le sue storie non sono alla fine che isole incontrate alla deriva dopo che la passione (la prima, l’unica) è finita, senza testimonianza che non siano lacerti confusi, sfasate testimonianze fossili (le apparizioni di Maggie Cheung), reazioni ritardate da androidi. A chi rimane, straniero nei territori dell’amore, non resta che incontrarsi e dirsi addio, all’infinito.

[novembre 2004]

Cast & credits:

Regia, sceneggiatura: Wong Kar-wai; fotografia: Christopher Doyle, Lai Yiu-fai, Kwan Pun-leung; montaggio: William Chang Suk-ping; musica: Umebayashi Shigeru; scenografia: Alfred Yau Wai-ming; interpreti: Tony Leung Chiu-wai, Gong Li, Carina Lau, Faye Wong, Zhang Ziyi, Chang Chen, Takuya Kimura, Maggie Cheung; produzione: Jet Tone Films, Block 2 Pictures e Classic Srl, Paradis Films, Orly Films, Shanghai Films Group Corporation; origine: Hong Kong 2004; distribuzione: Istituto Luce.

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