A History of Violence
Una regia decisa ma al contempo morbida nell’assecondare il giusto ritmo della storia, la costruzione di uno spazio e di un tempo filmico che ha nella linearità la sua dote migliore e la maestria di un regista che, divenendo tutt’uno con la sua “creatura”, conduce noi spettatori dentro un labirinto di novantasei minuti, in cui fatalità e menzogna assumono il ruolo di forza genitrice di una violenza che ci viene mostrata maturare da una condizione di latenza fino ad una deflagrazione rude e fisicamente tangibile. David Cronenberg aggiunge un ulteriore tassello al suo personalissimo mosaico della mente, del corpo e della condizione umana. Per farlo, parte dalla “graphic novel” di John Wagner e Vince Locke “A History of Violence”, ma, pur appropriandosi del titolo, sono ben presto visibili i segni di un allontanamento dallo stile del racconto a fumetti; allontanamento che conduce, invece, con naturalezza, il regista verso l’affermazione della propria visione e del proprio paradigma estetico. Sequenza dopo sequenza, Cronenberg restituisce a noi spettatori un senso di immobilità che è il primo artefice di una tensione strutturale e contenutistica che, iniziato il suo evolversi, diventa irrefrenabile. Esplora la mente il geniale regista canadese e lo fa andando a scovare quei demoni che lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca. Cela, dietro l’essenza cinematografica della sua opera, un breve ma intenso ritratto ontologico della natura umana e, nello specifico, del germe della violenza, temibile proprio perché nascosta, letale perché instabile ed improvvisa nella sua manifestazione, endemica perché fulminea nell’appropriarsi di ogni nostro possibile gesto. Il sesso ne diviene così l’espressione più reale e veritiera, perdendo il suo valore d’unione a favore di uno scontro che ha nella penetrazione il suo segno più manifesto. Ed incredibilmente forte è il segno di Cronenberg che rivendica la sua presenza, senza però mai ostentarla, in ogni sequenza, costruendo inquadrature in cui ogni singolo elemento diventa espressione di qualcosa d’altro, rimando ad una visione metaforica del film. Che tutto questo avvenga e si sviluppi all’interno di un nucleo familiare apparentemente privo di contrasti, puntuale riflesso di una società che, egualmente, sembra avere appiattito ogni forma di dissenso è un’ulteriore prova della capacità del regista, oltre che del desiderio, di sconvolgere tutto ciò che in apparenza può sembrare dominato da un’atavica tranquillità ma al cui interno, in realtà si celano le mostruosità del comportamento umano. Facendosi scudo di un gruppo di attori di assoluto valore, Cronenberg tesse l’esistenza dei suoi personaggi in modo cinico, senza mai abbandonarsi ad attimi di intangibilità ma, al contrario, puntuale e spietato nell’onestà della propria personale poetica. Li invade di ambiguità per poi lasciare a noi le chiavi della loro decifrazione. Sfrutta così un Ed Harris la cui maturità interpretativa è, probabilmente, arrivata al suo culmine. Manipola la straordinaria fisicità di William Hurt la cui recitazione ha nella sapiente consapevolezza della propria corporeità il suo segreto. Regala a Viggo Mortensen la possibilità di mostrare le proprie capacità in un ruolo di estrema difficoltà per la necessità di dovere restituire l’equilibrio artificiale che anima all’inizio il suo personaggio. L’epilogo, privato della parola, diviene iconografica rappresentazione della natura umana. Il silenzio e gesti che normalmente appartengono alla sfera della quotidianità, assumono ora il valore di muta accettazione della costante variabilità dell’esistenza, del suo impazzire per poi tornare entro i binari di una tranquillità che però, sembra ricordarci ancora una volta Cronenberg, basa la sua presenza su ciò che di più fragile sembra esistere. Il nostro agire. Ciò che vediamo sullo schermo non è l’immagine di un’armonia finalmente ristabilita, ma i volti silenziosi, i gesti privi di coraggio e pregni di insicurezza, gli sguardi tra lo smarrito e l’angoscioso sono le ultime preziose schegge di uno specchio che, come l’esistenza dei protagonisti, è andato in frantumi. Proprio nella solitudine di ogni singola scheggia si ha la parvenza di una nuova unione ma basta osservare per comprendere la profonda amarezza e la, ormai lucida, consapevolezza di un futuro che dovrà avere luogo pur avendo perso la verità del proprio passato.
Regia: David Cronenberg; Fotografia: Peter Suschitzky; Sceneggiatura: Josh Olson, tratto dal racconto A History of Violence di John Wagner e Vince Locke; Costumi: Denise Cronenberg; Interpreti: Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William Hurt, Ashton Holmes; Produttori: Kent Alterman, Chris Bender, David Cronenberg; Produzione: New Line Cinema. Durata: 96’. Origine: USA