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A time for dancing

Pubblicato il 22 settembre 2002 da Alessandro Izzi


A time for dancing

La spettacolarizzazione del dolore tocca spesso, nel contesto tutto particolare del cinema hollywoodiano, così incredibili vertici di cattivo gusto che anche un pubblico avvezzo ai melò vecchio stampo o ai film drammatici ad alto tasso di lacrime fatica a digerirla. E, in fondo, questo film, che conta sulla mano non felice di un regista come Peter Gilbert, è un esempio più che perfetto di come talvolta la ricerca della facile lacrima possa tranquillamente arrivare a toccare anche le corde di una storia realmente accaduta (il film è basato su una storia vera), producendo, su quello splendido strumento che è la narrazione, tutti i suoni della falsità e del perfido calcolo solo economico che è pur sempre alla base della produzione di un qualsiasi film. Sulla carta non mancano, certo, alcuni motivi di interesse e, qualche volta, durante la sofferta visione di un film altrimenti noiosissimo, si arriva addirittura a rimpiangere l’occasione perduta, ma per lo più i vari elementi del racconto si limitano essenzialmente a comporre il quadro di un film tetro, privo di ambizioni e sostanzialmente mal girato. La pellicola narra la triste storia di due amiche che si conoscono da anni e che hanno condiviso tutte le tappe salienti delle reciproche esistenze. Delle due la più realizzata è Jules: una ballerina pronta, ormai, per le audizioni alla mitica Juillard, che ha un ragazzo bellissimo e una famiglia che ne segue la crescita in maniera quanto più possibile partecipe. In realtà la ragazza vive tutta persa nel suo sogno professionale; è pronta a rinunciare all’amore pur di non appendere al chiodo le sue scarpette da ballo e non riesce a comprendere le esigenze delle persone che la circondano. Il mondo (e la sua stessa amica del cuore) sono, per lei, come degli specchi entro cui continuare a vedere riflessa la propria immagine e la visione di una futura realizzazione professionale. Per parte sua Sam è, invece, una ragazza timida e goffa, costretta a dividere casa con una madre verso cui nutre solo un profondo sentimento di disistima che scivola spesso in aperte ostilità. Passando le giornate a scrivere le sue idee su un diario (la cui lettura in voice over regala momenti di greve banalità ad una pellicola già da sola tutt’altro che brillante) ella non fa altro che alimentare le erbacce di un rapporto conflittuale con se stessa e con il mondo che la circonda. Risulta, a questo punto, chiaro che i sottili legacci psicologici che uniscono le due amiche derivano nient’altro che da una reciproca dipendenza. Un bisogno reciproco amorevolmente accudito e tenuto quanto più possibile vivo. Il loro è un rapporto incancrenito dall’abitudine e da quella calma placida che deriva dall’avere al nostro fianco una persona che ci illudiamo di conoscere e da cui non ci aspettiamo, ormai, alcuna sorpresa. Ma la sorpresa arriva, ahinoi, sotto le spoglie di un cancro incurabile che colpisce proprio, secondo le ben collaudate regole del film strappacuore, proprio la persona apparentemente più forte. Il tumore ha, inaspettatamente, l’effetto di invertire le parti nel difficile rapporto delle due ragazze. Jules si scopre fragile ed indifesa, Jim, per contro, comincia a risolvere i problemi del suo passato, trova un ragazzo e scopre una sua dimensione come ballerina e come persona. Raccontato così il film può apparire interessante, ancorché risaputo, ma nel sintetizzarne i motivi abbiamo, a bella posta, tralasciato tutte le tirate patetiche che appesantiscono lo scorrere inutile di inutili fotogrammi. Abbiamo, così, preferito tacere sulle scene di ballo che la protagonista sogna/immagina durante il suo decorso ospedaliero (obiettivamente mal girate e dominate da un simbolismo psicologico d’accatto) e che sono la (ovvia) visualizzazione della sua lotta con il male, abbiamo ignorato le solite immagini delle flebo che stancamente lasciano cadere goccia a goccia il loro medicamento inefficace, abbiamo tralasciato di parlare dell’orrore di una sceneggiat(ur)a dilettantesca che soffoca, tra parole fumose, i pur volenterosi interpreti. Forse il film potrà piacere alle aspiranti ballerine che sospireranno di fronte alla volontà della protagonista di restare in sella affrontando e vincendo addirittura i provini (rivissuti qui in perfetto stile Flashdance) per la Juillard nonostante il male, o forse piacerà a quelle anime candide che vedranno, tra le lacrime, la scena in cui la ragazza decide di voler fare l’amore almeno una volta prima di morire, ma il film è, in ultimo, solo una grossolana operazione commerciale.

(A time for dancing); regia: Peter Gilbert; Sceneggiatura: Davida Wills Hurwin, Kara Lindstrom; Fotografia: Alex Nepomniaschy; Montaggio: Amy E. Duddleston, Stuart H. Pappé; Interpreti: Larisa Oleynik, Shiri Appleby, Peter Coyote, Amy Madigan, Shane West; Produzione: East of Doheny; Distribuzione: Eagle Pictures; Origine: Usa, 2000

[settembre 2002]

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