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Anmaßung – Anamnesis

Pubblicato il 3 marzo 2021 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Anmaßung – Anamnesis

Che volto ha un omicida? Cosa distingue un essere umano da un assassino? Come si fotografa un delitto? Queste sono le domande che la coppia di registi Chris Wright e Stephan Kolbe si pone di fronte alla cinepresa. Paradossalmente, non parliamo di quesiti insormontabili – anzi, forse tali interrogativi sono fra più semplici che possano esistere. La risposta, però, non sempre è socialmente e / o intimamente accettabile: ce lo dimostra Anmaßung , ultimo prodotto dei due autori selezionato al Festival per la sezione Forum. Sebbene la tematica non sia delle più originali, il lungometraggio è in grado di svincolarsi dai cliché con sapiente maestria, esaminando la mente criminale con strumenti se non proprio inediti quantomeno eccentrici. Girato fra i vuoti asettici di un carcere del Brandeburgo e le piatte steppe bavaresi, il documentario sembra acquistare una fisionomia tutta sua, trasformandosi in una bizzarra creatura di fronte alla quale ci sentiamo imbarazzati e ammaliati. Il motivo del contendere, l’atroce eppur banalissima verità attorno alla quale vortica l’intera pellicola, si snocciola sulla scia di poche parole: Stefan S. ha ucciso Maria M. – i nomi non sono nomi ma codici, così come lo sono fatti e identità una volta che questi vengono posti sotto la lente del microscopio giuridico. Eppure, i reati effettivi non vengono quasi mai pronunciati a chiare lettere: stalking, violazione di domicilio, furto, omicidio si rapprendono nel volto di un pupazzo dalla fisionomia grottesca, utilizzato dagli operatori per raccontare la storia del nostro ipotetico Stefan.

Ridotto al feticcio di sé stesso, egli ci narra la sua infanzia, la giovinezza infelice, l’età adulta da sempre e per sempre ripudiata con orrore. I fotogrammi si accumulano, i luoghi di una vita scorrono su negativo, lasciando al pubblico la sgradita incombenza di immaginare il resto. Stefan permea le strade, i campi, le stanze diroccate della sua vecchia scuola, gli shopping center suburbani nei quali egli si riforniva, le variopinte casette di plastica in cui un giorno si consumò il delitto – questa, almeno, la nostra impressione. L’apparato cinematografico entra ed esce dalla nostra mente, deformando o rendendo più nitide le immagini di cui si compone la vita del suddetto criminale: la troupe parla, quasi simulando le voci nella nostra testa, pronte a farsi la propria idea, a discutere fra loro, ad accapigliarsi nel tentativo di far quadrare il cerchio delle future opinioni. Nella normalissima schizofrenia che accompagna la visione, si finisce per smarrire perfino il protagonista della vicenda: dov’è Stefan? Dove si trova la sua verità? Il film di Wright e Kolbe si dimostra particolarmente scaltro nel portare sul palcoscenico non tanto il misfatto in sé, quanto il processo di ricostruzione teorica attraverso il quale siamo soliti distinguere autenticità e menzogna. Stefan viene trasportato da una sequenza all’altra come se non fosse reale, la sua esistenza pregressa si raddensa in qualche doloroso ricordo che la cinepresa si predispone a mettere in scena. Ad uno ad uno, compaiono tutti i traumi necessari ad un assassino per divenire tale: malattia, problemi di socializzazione, eccessivo attaccamento alla sfera familiare, accumulo compulsivo, feticismo, autismo. Aggiungiamo, inoltre, il contesto instabile della cosiddetta Wende, la fine della DDR, la perdita del lavoro, la rassegnazione sociale: piaghe che in una personalità già malferma devono aver portato a conseguenze nefaste. Ci si chiede, però, se a parlare sia veramente Stefan o se invece non si tratti del dipinto che la mano della cinepresa traccia al posto suo.

L’apice narrativo non viene mai raggiunto, l’assassinio si limita ad essere presentato davanti alla corte con fredda dovizia di particolari. Ma nessuno pare disposto ad illuminare l’enorme buco nero attorno a cui le marionette si muovono – quello del crimine in sé e per sé. I moventi sono molteplici, il materiale si accumula, i giudizi si sprecano e schiamazzano fra le nostre orecchie e davanti ai nostri sguardi, i precedenti sfregiano la linea della vita sulla quale l’omicida cerca un suo equilibrio. La verità, tuttavia, se ne sta nascosta insieme al volto di questa strana cavia da laboratorio che l’obiettivo impietosamente sfoggia e cela. L’unica istantanea che si avvicini timidamente ad una qualche forma di oggettività è quella che immortala Stefan sulla scena del delitto, gli occhi serrati: una fotografia che non ci soddisfa affatto, che non può soddisfarci, perché in essa c’è un volto che preferiremmo non vedere.


CAST & CREDITS

(Anmaßung – Anamnesis); Regia: Stefan Kolbe, Chris Wright; sceneggiatura: Stefan Kolbe, Chris Wright; fotografia: Stefan Kolbe; montaggio: Chris Wright; interpreti: Nadia Ihjeij, Josephine Hock; produzione: Ma.ja.de. Filmproduktion; origine: Germania 2021; durata: 111’.


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