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Arbeit macht frei - Il lavoro rende liberi

Pubblicato il 15 maggio 2017 da Veronica Flora


Arbeit macht frei - Il lavoro rende liberi

Nel 2012 un documentario avvicinava l’Italia alla Girlfriend in a coma cantata da Morrissey nell’omonimo pezzo degli Smiths. Un’immagine, nonostante i continui proclami di ripresa, tutt’ora drammaticamente calzante. Di fronte a una crisi che negli anni si sta facendo sempre più aspra, familiare e permeante la società a tutti i livelli, perché - si chiede Daniele Vicari - non si fa una rivoluzione? E lo fa con un film, Sole cuore amore, che ci parla di un quotidiano occupato in maniera ipertrofica da un’idea di lavoro malata, eppure, al tempo stesso, tacitamente accettata da tutti, parti in causa e non, come normale. Una normalità mostruosa che la protagonista, Eli (Isabella Ragonese), cerca di affrontare sempre a testa alta, con forza e dignità ma anche consapevolezza dell’assenza di una via di scampo.
“Teniamo duro” è la risposta sussurrata, con sorriso tremante, dalla protagonista al marito, mentre tenta di nascondere segni sempre più evidenti di un cedimento psico-fisico imminente. In una società attraversata da sempre più complesse forme di disuguaglianza sociale, paradossalmente, sono proprio i preziosi vincoli sentimentali e familiari, per i quali si è disposti a fare sacrifici indicibili, a rendere impossibile persino immaginare l’idea di una ribellione.
Crediamo di conoscere questa storia. Ma il regista fa bene a mostrarcela ancora, nella sua semplicità. Il movimento costante della protagonista in una dimensione lavorativa quotidiana segnata da accordi contrattuali indecenti, o completamente inesistenti, e ritmi di vita disumani. Un vortice di ripetitività, fatica e frustrazione accettabile solo in virtù del soddisfacimento dei minimi bisogni materiali di esseri umani uniti da un sentimento d’amore - sororale, coniugale, materno - che non ha motivazione razionale, ma che tutto giustifica.
Giornate devastanti rischiarate da bagliori nascosti, manifestazioni intermittenti di solidarietà, avvolte da un calore capace di rendere tutto sopportabile. Forme autistiche e magnifiche di rivolta, che passano per la cura che gli individui riescono ancora a trovare la forza di riservare gli uni agli altri, si perdono alla deriva in una realtà divorata dell’aridità, dalla volgarità, dove lo stato sociale non esiste più.
È un film sul lavoro Sole cuore amore, dove tutto tende, in una proiezione vertiginosa, verso il momento focale della resa dei conti tra la cameriera Eli e il suo datore di lavoro, Nicola.
La concatenazione di eventi che precede questo momento si connota di una ripetitività che ricorda Jeanne Dielman. L’apnea totale di sentimenti umani in cui la protagonista del film di Chantal Akerman vive, rinchiudendosi tra le pareti e gli oggetti di una casa nella quale conduce un’esistenza ormai da automa, è sostituita, nel film di Vicari, dal flusso di energia incontenibile che scaturisce da Eli. Una dimensione estraniante di euforia che le serve per tollerare una realtà di fatica fisica e mentale altrimenti insostenibile, che finirà per ritorcersi fatalmente contro la giovane donna. Ma la scintilla della rivolta non c’è.
Sole cuore amore è anche un film sulle diverse anime del lavoro. Dimensioni che si sovrappongono e vanno a coincidere molto più spesso di quello che sembri. Ciò che definiamo lavoro intellettuale - frutto di ricerca e sperimentazione artistica e scientifica, ad esempio - vive una condizione di costante umiliazione. Le conseguenze non sono visibili nell’immediato solo perché chi è attraversato dalla passione per ciò che fa resiste, sopravvive, spinto dallo stesso fuoco che consuma Eli nel suo desiderio di vivere una vita normale, con la propria famiglia. Ma non significa che tali conseguenze non investiranno in maniera più devastante l’intero sistema, con un sentore di morte di cui la conclusione di questo film è solo una drammatica proiezione artistica.
Sole, Cuore, Amore è il racconto dell’ennesima storia vera di resa estrema, non solo intellettuale ma fisica, e proprio per questo forse ancor più efficace metafora della lunga, dolorosa agonia di questo paese.
“A me la canzone di Valeria Rossi piace. L’ho scelta perché parla di tre cose semplici, proprio per questo difficilissime da rappresentare dalla poesia, dall’arte” racconta Vicari. Semplici come le lacrime di una cameriera che vede la vita sfuggirle di mano, mentre una società indifferente la condanna a morire di fatica, per una miseria.


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