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ARCADIA

Pubblicato il 18 ottobre 2002 da Alessandro Borri


ARCADIA

Certo stupisce un po’ che fino ad oggi, a quasi dieci anni dalla sua creazione, Arcadia di Tom Stoppard ancora non fosse stato rappresentato in Italia. C’è solo da congratularsi con la Terza Università di Roma che ha riparato alla mancanza, favorendo la nascita di questo allestimento che sfrutta proprio i nuovi locali della Facoltà di architettura all’ex mattatoio di Testaccio. In uno dei capannoni della struttura industriale Leonardo Angelini e Francesco Giannini (alla seconda esperienza stoppardiana dopo un Rosencrantz e Guildestern sono morti l’anno scorso) hanno ricreato il salone di villa Coverly, in cui tutto il play si svolge: bastano delle paraste con decorazioni vagamente frattali e un tavolo su cui a seconda dell’andirivieni temporale immaginato da Stoppard si alternano o incrociano carta, calamaio e computer. Intorno, il pubblico fa da cornice, oltre ancora c’è solo da immaginare il giardino travagliato della villa, che affronta il passaggio traumatico dall’armonia euritmica dello stile italiano alla poesia svenevole del pittoresco. Poi, non resta che abbandonarsi al puro piacere intellettivo che il divertissement stoppardiano procura, alle carambole letterarie che hanno reso celebre il suo autore, dalla sua prima piece che rivoltava Amleto come un calzino alla sua versione light nella sceneggiatura di Shakespeare in Love. In particolare Arcadia (1993) nella sua natura di giallo letterario, nel suo palinsesto di indizi che si stratifica su due secoli e culture (sottolineati qui dall’alternanza di arrangiamenti delle piacevoli musiche di Simona Bedini), non può non rimembrare la Byatt di Possession (1990), altra straordinaria “pasticheur” della cultura inglese: pure qui lettere scoperte da studiosi rampanti che rischiano di innamorarsi, rispecchiandosi in poeti ottocenteschi (qui Byron in persona, manco fossimo nel Segno del comando) un po’ veri un po’ inventati, pure qui disquisizioni saggistico-erudite-pettegole a gogo. Solo che Stoppard, giocoliere del concetto e della vertigine, non si accontenta, e inzeppa il testo di tutto lo scibile umano, in puro stile Eco (Arbasino lo paragonava al Pendolo di Foucault): c’è Walpole e Salvator Rosa, c’è - profeticamente - il teorema di Fermat poco prima della sua risoluzione e le teorie del caos, c’è Newton (come in Rosenctrantz e Guildestern) e giochi di parole tra nightingale e peacock (che è anche Thomas Love Peacock, naturalmente). Insomma, godimenti sopraffini, fino al virtuosistico intrico di tempi nel finale, dove il determinismo cede su tutta la linea e passato e presente si danno l’appuntamento per l’ultimo giro di valzer. La compagnia affronta baldanzosamente l’intricata partitura drammaturgia, uscendone vincitrice per impegno e simpatia, con una menzione particolare - per la sezione ottocentesca a Giuseppe Russo, per quella odierna a Giulia Bressan.

[ottobre 2002]

Cast & credits:

regia: Leonardo Angelini, Francesco Giannini; scenografia: Licinio Aliberti, Francesco Giannini, Adriano de Ritis; costumi: Maria petrilli; luci: Michelangelo Vitello; musica: Simona Bedini; interpreti: Giulia Angelino, Matteo Angius, Giulia Bressan, Roberto Capitani, Marcus J. Cotterell, Mariagrazia Pompei, Gaia Riposati, Giuseppe Russo, Alessandro Scaretti, Marco Silvestrini, Franco V. Solfiti, Lorenzo Torchia; produzione: Università degli studi Roma Tre.


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