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Basta borghesi: Ho voglia di perfieria

Pubblicato il 14 marzo 2007 da Edoardo Zaccagnini


Basta borghesi: Ho voglia di perfieria

Ponte Milvio non si trova esattamente nel cuore di Roma. Rispetto ad altri passaggi sul fiume, pedonali o meno, la sua posizione rimane leggermente spostata verso il nord est della città. Da una parte si apre il quartiere Flaminio e poco dopo si alzano i parioli; dall’altra spuntano le colline della farnesina, della camilluccia e del Flemming: piene di pini e di cancelli automatici. Sulla destra del ponte, accanto a Corso Francia, salgono le vie di Vigna Stelluti e Vigna Clara: arredate con bei negozi, bei palazzi e piante sui vialetti e sui balconi. A Sinistra, invece, elefantiaco e monumentale, il gigante che dorme: lo stadio Olimpico, ucciso dalla copertura di Italia ’90 ed appoggiato dentro il foro italico e sotto Monte Mario. Attaccato alla curva Sud del mitico colosso c’è il quartiere prati: una bella rete di viali e traversine, con pista ciclabile e studi avvocatizi e televisivi. Il tutto si spegne dolcemente sotto san Pietro ed improvvisamente, dalla parte opposta, addosso alla tangenziale che separa, con la sua retta grigia ed intasata, le tante periferie che costituiscono tutt’altro modo di vivere Roma. L’insieme di quartieri, adiacenti e simili, che circonda Ponte Milvio è un’area vasta, alberata e trafficata. Abitata da gente “per bene”, che bene veste, bene viaggia e bene fa sport ed affari. Ponte Milvio d’estate, la sera, è pieno di giovanissima pelle abbronzata. La luce arancio dei lampioni che avvolgono il suo antico rettilineo di pietra, imbosca e contiene una generazione che sta per partire, andare, progettare, diventare. Seduta sul bordo in travertino, col tevere nero che quieto ed eterno scorre sotto e silenzioso, questa inafferabile età centro romana gioca a dettagliare quel viaggio che si promette straordinario. Alla fine andranno in Grecia, in Marocco, in Turchia. Sul ponte c’è un forte e profumato odore d’hascisch, bottiglie di Heineken in piedi o sdraiate e pischelli che arrivano a chiedere cartine. Che non significa tanto “ho bisogno di una cartina” quanto “mi faccio le canne!”. E farsi le canne significa partecipare, oltrepassare, ricercare, esserci. Ti piombano sotto, maschi e femmine, con una voce mezzo arrabbiata e mezzo addormentata. Se ne vanno e li guardi: ne cogli il momento, un po’ ci ridi, un po’ li giudichi. Un po’ vorresti dirgli e un po’ non c’è nulla che non vada. Per loro è appena passata, o sta per venire, la maturità borghese: quella convenzione sociale che dice di essere grandi, pronti, forti. Qualche anno fa Giovanni Veronesi ci raccontò uno di questi moderni viaggi al mare e ne uscirono ritratti credibili di una certa romanità: quella che annusa Catullo ed Aristotele, che crede nell’amore e nell’amicizia, che non mette i soldi al primo posto perché già ci stanno: ce li ha messi qualcuno da tempo per loro. Una romanità alla ricerca disperata di una felicità enorme che ancora non c’è. Una generazione figlia di una sconfitta e arrabbiata e violenta verso i genitori che spesso non riescono a smettere di sbagliare. Il film di Veronesi si intitola Che ne sarà di noi e quando uscì quei personaggi ci erano già stati presentati dal regista che di questi quartieri, di queste estrazioni, di questi modi di pensare ha fatto il suo cinema e la sua fortuna: Gabriele Muccino. I suoi sono film di palazzi a tanti piani con ascensore centrale e il centro di Roma a due passi: sempre ospitale, sempre complice, amico e mai alienante. In questi film ci sono famiglie che osservano i figli con preoccupazione e razionalità, dal buco della serratuta. Sono nuclei sfilettati, un po’ deboli e un po’ in colpa, in crisi e in analisi. I figli si sbraitano, corrono e manifestano, urlando, l’angoscia che anticipa il successo momentaneo della loro formazione. Che quasi sempre culmina in una bella e sorprendente, irripetibile ed incantevole scopata d’amore. Con quell’atto, descritto con bella prosa dagli autori borghesi del cinema italiano contemporaneo, si chiude un momento e si conquistano gli euro di una generazione. L’amore a vent’anni, nel bel mezzo di Roma col sole, col motorino e il portafoglio del babbo condannato a pagare e ad ammettere i propri errori. I figli, così puri e intelligenti, credono al come te nessuno mai ma qualche anno più tardi si convertiranno, dolorosamente, al come te mille altre! Eppure è il loro mondo che interessa al cinema italiano che più incassa e più guadagna. Prendiamo in esame alcuni dei film che stanno risollevando le sue sorti. In Notte prima degli esami, di ieri o di oggi che sia, i protagonisti sono figli di una Roma, se non bene, almeno benino: l’unica che appartiene ad una sorta di proletariato metropolitano contemporaneo, è una ragazza che viene bocciata al primo film e se ne va, definitivamente, a raccogliere un pezzo di muro a Berlino. Gli altri, più belli e vincenti, restano e corrono a colle Oppio, vanno alle feste nelle ville e si affacciano dal balcone vedendo cupole, cupole, cupole e cupole. Il loro professore abita in un vicoletto in salita che la città di sei milioni di abitanti ti sembra un paesino di duecento anime. I genitori giocano a calcetto nel circolo Canottieri Lazio. In Come te nessuno mai, manifesto (non accettato) degli adolescenti del Liceo Mamiani, la periferia compie una breve irruzione sottoforma di goffa saquadriglia di skinheads. Muccino li tratta malissimo, espellendoli dalla pellicola immediatamente ed abbandonandoli ad altre, chissa quali, chissà quando, migliori riflessioni su di loro. Eppure ce ne è tanta di questa romanità senza Catullo e senza denaro, che è poi quella che occupa le curve e che fornisce manovalanza a nuovi e politici movimenti. Ma al cinema non interessa. E prendiamo l’amatissimo Step di Moccia: in periferia ci va solo per correre in moto ma quando torna da New York il primo posto che visita è proprio il baretto di Ponte Milvio. Step, quasi per caso, si ritrova a lavorare in televisione, campo professionale esclusivo della borghesia romana, di natura o di fatto. Ma di lavoro, Step, non parla mai. Si addentra, affamato d’amore, in una classe sociale ancora più alta della sua e sta alla sua Baby come il Claudio Amendola di Amarsi un po’ stava alla bella principessina vestita da ragazza della porta accanto. Solo che Amendola era davvero un ragazzo di periferia e per comprarsi la moto lavorava in officina. Step se ne è stato due anni a New york e, a sentir lui, non ha fatto altro che andare a letto presto. C’ è da credergli perché è identico a come era quando partì a digerire la morte sentimentale. Non cè niente da fare, è affascinante e cinegenico l’ambiente borghese romano. Persino Paolo Virzì, dopo aver cantato l’inno del proletariato livornese si è messo ad osservare gli usi e i costumi della Roma radical dei professionisti e dei licei: la sua Caterina va in una città dominata da monumenti e da colori pastello che danno sull’arancio, sul rosso, sul rosa e sul giallo. Si mette in mezzo a “zecche” coi soldi e a pariolini con ancora più soldi. Rimane interdetta ma al contempo attratta da quelle dinamiche sociali. Perché è leggittimo per i poveri aspirare ad una condizione migliore. C’è uno dei film più chiari di Bernardo Bertolucci che lo testimonia. E’ Prima della Rivoluzione, quando Fabrizio, alla festa dell’Unità, viene ammonito da Cesare per non averlo ancora compreso! Per ciò, per le migliaia di adolescenti di periferia, quello di Step è un modello perfetto, perché lontano dalla realtà e per questo superconduttore di sogni ed emozioni. Funziona la formula dell’anche i ricchi piangono, che sono pure belli e intelligenti. Il grande mito paradigmatico di questa generazione è Silvio Muccino. I suoi occhioni azzurri da bravo ragazzo rafforzano i suoi pensieri contro e danno ossigeno alla sua rincorsa. Si veste come la periferia ma non sarà mai come la periferia. Perché la periferia, quel coraggio, quella determinazione timida, quel sapere che in fondo può farcela, non ce l’ha. Muccino si muove nel centro storico anche quando vuol far finta che sia un quartiere popolare, vedi il Mio miglior nemico, ultimo sopravvalutato lavoro di Carlo Verdone. Fa le poste a Jasmine trinca (in Manuale d’amore 1) in un angolo di Roma che sembra un giardino incantato. Con lei si piglia un delizioso appartamentino che di affitto verrà a fare 1000 euro al mese, almeno. E’ questa la Roma del cinema, ed ultima riprova ne è il film della compagna Archibugi: Lezioni di Volo, in arrivo nelle sale romane nei giorni a venire. E’ la storia, televisivamente girata, di due super ricchi adolescenti di via del Babuino, anche loro in fondo bravi figli, con la pelle pulita e gli occhi lucidi che quando capiscono chi sono, gli occhi si fanno più grandi e rischi di fare il tifo per loro. Una volta c’erano i poveri ma belli perché l’Italia si ritrovava in loro. Oggi i modelli sono questi e la periferia non è di moda. Perché parlare di periferia significa denunciare e sono pochi quelli che hanno voglia di farlo, anche perché non è con la denuncia, nè col realismo, che si fanno i soldi. L’unico bel film romano degli ultimi anni che parla di periferia è il convincentissimo Saimir di Francesco Munzi. E’ la storia di un ragazzo macedone che vive sul litorale laziale. Non è un film che ha fatto soldi e non sarà un cult di questa adolescente generazione. Non c’è movimento ormonale in Saimir ma bocconi amari che i giovani non hanno nessuna voglia di ingerire. Eppure sarebbe bello per una città come Roma, ricchissima di periferia, dare voce e immagine ad una grandissima fetta di generazione che vive in agglomerati popolari, che va in centro solo raramente, che passa i pomeriggi in bisca o sul muretto, ad urlare, impennare e dire bestemmie e parolacce. Una fetta con tanto bisogno e tanta incapacità di amare. tanto bisogno di essere guidata e consigliata. Sarebbe bello che il cinema romano si avvicinasse a quegli isituti tecnici pieni di disastri didattici e sociali che fanno la maggior parte della cultura cittadina. Andrebbe bene anche un film come La scuola di Daniele Lucchetti, tanto per iniziare. E invece no! Ancora amori di centro, tevere in cui piangere e canzoni pop a completare l’affresco. A Napoli non è così, a Napoli la periferia è il centro del cinema. Perché Napoli è una città diversa da Roma e perché i registi che la stanno fermando hanno deciso di denunciare. Forse perchè costretti. La differenza è che Tornando a casa, vento di terra, La guerra di Mario, Pater familias, li ha visti solo il cinefilo ad oltranza; Io e te tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Notte prima degli esami, Manuale d’amore e tutto il doppio muccinismo, li conoscono un po’ tutti, anche quelli che sono trent’anni che non vanno al cinema. Così per sentito dire. E’ la realtà, che ci vuoi fare?


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