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Benvenuti a Marwen

Pubblicato il 10 gennaio 2019 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Benvenuti a Marwen

Robert Zemeckis prosegue in quella che sembrerebbe una programmatica scomposizione pezzettino per pezzettino di una fama raggiunta a suon di gran bei titoli spettacolari e fatti come si deve a metà fra l’intrattenimento mainstream e un’impronta di riconoscibilità autoriale che un tempo (parliamo degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso) poteva tranquillamente contendersi con Steven Spielberg. Il suo posto nella storia del cinema se lo è senz’altro, e meritatamente, conquistato con Ritorno al futuro (inteso, ma sì, perché no?, anche come trilogia), Chi ha incastrato Roger Rabbitt e Forrest Gump, e per un po’ si è saputo mantenere saldo sul seggiolone delle eccellenze di Hollywood con successi come Le verità nascoste o Castaway. Da quel momento in poi, almeno a parere di chi scrive, è come se il cineasta di Chicago di origine mezza italiana (la madre era di Arquata, in provincia di Ascoli Piceno), per inseguire un suo personale e più che legittimo sogno di sperimentazione – forse affascinato dalle allora nascenti tecniche di animazione e rielaborazione digitale delle immagini – abbia scelto di voltare le spalle a quel pubblico planetario che gli aveva accordato simpatia e stima incondizionate e incamminarsi per gli accidentati percorsi della Performance Capture realizzando ben tre film che, a onor del vero, non hanno lasciato gran traccia di sé, e a rivederli oggi risultano datati in modo piuttosto imbarazzante. È con Flight, del 2012, che Zemeckis tenta il rilancio, mettendo a punto un film drammatico di buon spessore, cui forse non giovava un finale eticamente e moralmente corretto, coraggiosamente distante dai consueti criteri del cinema statunitense basato sull’incondizionata vittoria dell’eroe protagonista: tuttavia critica e pubblico rispondono abbastanza bene e, pur con discrezione, il regista di Contact e La Morte ti fa bella sembra rientrare a buon diritto nelle fila dei grandi nomi del cinema USA, garanzie di prodotti qualitativamente dignitosi e adeguatamente remunerativi. Ma è un’illusione: con il manierato e zuccheroso The Walk (sul funambolo che passeggiò su un filo teso tra le Twin Towers di cui si era già occupato il pluripremiato documentario Man on Wire), e la spy-love-story tra Brad Pitt e Marion Cotillard di Allied, un film molto più vuoto e inerte di quanto la confezione patinata e rétro non lasci intendere, Zemeckis torna a deludere pesantemente, mostrando i propri limiti di autore incapace di scardinare fruttuosamente, come sarebbe nelle sue intenzioni, lo schema classico di questo o quel genere cinematografico, operazione ben altrimenti condotta in porto più che felicemente da cineasti forse più colti o semplicemente meno ambiziosi di lui.

Benvenuti a Marwen è il suo lavoro più recente, uscito prima di Natale negli USA, dove ha immediatamente mostrato la corda al botteghino, collezionando per giunta un’ondata di critiche negative. Sulla scia di una così tiepida, quando non gelida accoglienza, arriva ora nelle sale italiane, dove forse piacerà parecchio agli incalliti fans di Zemeckis, disposti da sempre a perdonargli qualunque eccentricità vera o presunta, ma difficilmente riuscirà a incantare e convincere masse di pubblico pagante. Manifesto-epicedio-suicidio di un cineasta pericolosamente scaduto da anni nella deriva di un’inerzia irreversibile, Benvenuti a Marwen racconta quasi con distrazione narrativa la vicenda reale di Mark Hogancamp, un artista newyorchese vittima della brutale aggressione omofoba di un manipolo di nazistelli incontrati in un bar, che gli ha procurato diversi handycap fisici, compresa la perdita della memoria. Il disturbo mentale causato dal pesante trauma del pestaggio gli sprigiona in testa un universo di personaggi in forma di bambolotti (tipo la Barbie e il Ken della Mattel, per intenderci) inseriti nel contesto bellico della Seconda Guerra Mondiale e più in dettaglio nell’immaginario villaggio belga di Marwen (di cui non si rivelerà l’origine del nome, per evitare un piccolo spoiler). Nell’alternanza tra i deliri di Mark, splendidamente realizzati con un’animazione digitale che dona ai pupazzi le fattezze riconoscibili di Steve Carell e di tutto il resto del cast, e le lunghe e faticose sequenze di dialogo girate con gli attori in carne ed ossa che rallentano e appesantiscono il racconto, Zemeckis non riesce mai a trovare il giusto equilibrio che faccia quadrare il senso di un’operazione che non si solleva mai al di sopra del ‘volenteroso’. L’introduzione forzata della love story con la nuova vicina di casa distrae e disorienta sulla natura sessuale del protagonista, nella quale risulta difficile riscontrare le motivazioni dell’aggressione nazi. Ma il vero disastro è l’impostazione generale dei dialoghi, scritti dallo stesso Zemeckis con mano distratta e abbondantemente affondata nel repertorio dei luoghi comuni, qua privi di ritmo e mordente, là artificiosi e contorti. Su tutto aleggia un tono fintamente dolente, che procede in salita e a spinta, cospargendo il film di una sensazione ammorbante di noia e di letale assenza di empatia. Neppure Steve Carell, nella doppia versione pupazzesca e in carne ed ossa, si spolvera via dalla faccia un’espressione catatonica che non gli si addice. E alla lunga anche le sequenze ‘action’, debitamente realizzate con l’animazione digitale, finiscono per risultare dei teatrini sterili, nonostante le numerose citazioni cinematografiche (una su tutte, il finale di Vertigo) che suonano come casuali giochini nostalgici di una mente creativa stanca e demotivata. Né riesce a convincere il coté psicanalitico della ricostruzione, ogni volta corredata di nuovi elementi, della scena del trauma mascherato dalla differente ambientazione storica, che dovrebbe fungere da terapia d’urto per aiutare lo sfortunato paziente a recuperare la memoria perduta. Insomma, un flop piuttosto vistoso che potrebbe segnare, dopo i molti passi incerti della sua carriera recente, una lunga, quando non definitiva, battuta d’arresto nell’alterna carriera del geniale e smaliziato papà di Forrest Gump.


CAST & CREDITS

(Welcome to Marwen); Regia: Robert Zemeckis; sceneggiatura: Robert Zemeckis; fotografia: C. Kim Miles; montaggio: Jeremiah O’Driscoll; musica: Alan Silvestri; interpreti: Steve Carell, Leslie Mann, Diane Kruger; produzione: ImageMovers, Universal Pictures, DreamWorks; distribuzione: Universal; origine: USA, 2018; durata: 116’


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