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Una separazione

Pubblicato il 21 ottobre 2011 da Matteo Galli
VOTO:


Una separazione

Orso d’oro alla Berlinale 2011, Nader e Simin, una separazione, il film di Asghar Farhadi, già vincitore dell’Orso d’Argento come migliore regia nel 2009 con About Elly (oltreché premiato a Locarno nel 2006 per Fireworks Wednesday) ha scritto e diretto un film a cui non manca nulla: una sceneggiatura solidissima, nobilitata da ottimi dialoghi, una regia serrata ma mai claustrofobica (pur facendo quasi esclusivamente uso della camera a mano e muovendosi all’interno di spazi molto ristretti), la rara capacità di coniugare in modo nient’affatto banale questioni di alto spessore etico (la colpa e la menzogna, il dolore e la malattia, il peccato e la libertà) senza mai fornire risposte scontate e manichee con un’analisi politica e sociologica delle dinamiche (anche) di classe della società iraniana. Il conflitto che mette in moto il complesso ma mai inutilmente complicato plot è di quelli forti: da un lato il comprensibile anelito di libertà di Simin che vuole andarsene dall’Iran, dopo una lunga attesa è riuscita per lei e per il marito ad ottenere un visto, è ancora solo un visto temporaneo ma si capisce bene che sarà solo il primo passo per un abbandono definitivo del paese; dall’altro il desiderio, altrettanto comprensibile, di Nader di stare accanto al padre, malato di Alzheimer. Entrambi non cedono e Simin, donna consapevole e indipendente (che porta il velo con una annoiata nonchalance), chiede la separazione e abbandona il tetto coniugale, lasciando il marito e la figlia undicenne Termeh (interpretata dalla figlia del regista); uomo pratico e illuminato, Nader è dispiaciuto - in fondo stanno insieme da quattordici anni, e ancora si vogliono bene e si rispettano – ma alla fine accetta la decisione della moglie e cerca di correre ai ripari, di trovare una badante per il padre durante le ore in cui è fuori per lavoro, in banca. All’insaputa del marito più maschilista che ortodosso, braccato dai creditori e addicted agli psicofarmaci, la donna si porta con sé una figlia appresso, un figlio in grembo, una condizione sociale molto disagiata, e una sensibilità religiosa talmente spiccata che quando l’anziano dà visibili segni di incontinenza prende su il telefono e chiama il numero verde per questioni religiose domandando se pulire il sedere al suo assistito sia da considerarsi peccato. Un rientro a casa anzitempo da parte di Nader dà il via a una serie di reazioni a catena: la badante non c’è, il padre è semi-svenuto a terra con un braccio legato alla spalliera del letto, la donna ritorna, diverbio furibondo, fin quando la donna viene cacciata di casa a spintoni, cade per le scale e perde il bambino. Da qui in avanti quasi tutti i protagonisti del film si ritrovano, reiterate volte, nella stanza del giudice (Babak Karimi, vecchia conoscenza del cinema iraniano e di quello italiano, attore e montatore di Kiarostami e Payami, di Scimeca) chiamato a venire a capo, si potrebbe davvero dire a “montare” un indissolubile intreccio di colpe, menzogne, di verità che emergono a poco a poco, ritrattazioni da parte delle due coppie, delle figlie e persino dell’insegnante/tutor della figlia di Nader e Simin. Il film pendola fra Scene da un matrimonio e Un giorno in pretura (al sistema giudiziario iraniano Farhadi aveva dedicato il suo secondo film, A beautiful city del 2004). E in effetti i modelli estetici di Farhadi, sono proprio questi, neorealismo e dramma della media-borghesia, due generi e classi che il regista intende mettere in dialogo, ponendo l’accento su ancestrali conflitti della società iraniana, presenti fin dai tempi della dinastia degli Assanidi, come ci racconta in una breve sequenza parentetica ma illuminante il libro di storia che Termeh sta studiando. D’altra parte, il marcato interesse di Farhadi nei confronti delle dinamiche di classe era già emerso nel film premiato a Locarno. Se dopo molte peripezie il conflitto legale alla fine si risolve, seppur con il marito della badante che tragicamente ci lascia la vita, quello coniugale resta, a scongiurare qualsivoglia seduzione buonista.
Nell’anno in cui la giuria di Berlino ha dovuto fare i conti con la sedia vuota di Jafar Panahi, il cinema iraniano mostra una volta di più la propria ricchezza e vitalità.


CAST & CREDITS

Nader and Simin, a separation, regia: Asghar Farhadi; sceneggiatura: Asghar Farhadi; fotografia: Mahmood Kalari; montaggio: Hayedeh Safiyari; scenografia: Keyvan Moghadam; interpreti: Leila Hatami (Simin), Peyman Moadi (Nader), Shahab Hosseini (Hodjat); Sareh Bayat (Razieh), Sarina Farhadi (Termeh), Babak Karimi (il giudice), Ali-Asghar Shahbazi (il padre di Nader); produzione: Asghar Farhadi; origine: Iran; durata: 123’


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