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Black Swan - La maledizione del nuovo

Pubblicato il 4 maggio 2013 da Francesca Dimasi


Black Swan - La maledizione del nuovo

La storia è quella, sempre la stessa dal 1877, anno in cui Il lago dei cigni venne rappresentato per la prima volta al teatro Bolshoi di Mosca. Non ebbe granché successo eppure la storia, quel suo corpus vivido eppur sempre uguale, si ripete da più di un secolo e desta sempre lo stesso, morboso interesse. Non c’è nulla di nuovo, o forse stavolta qualcosa di nuovo c’è e si chiama Darren Aronofsky.
Pensando a lui torna alla mente quel che diceva Bergson a proposito dei cominciamenti, degli esordi, del nuovo. Egli sostanzialmente constatava come le espressioni, anche quelle più innovative fossero difficili da individuare, paradossalmente proprio agli inizi. Perché il nuovo, nelle sue prime manifestazioni è costretto a imitare il sistema, onde evitare di esserne espulso e dunque cercandovi l’integrazione. Ecco Darren Aronofsky è uno che dà l’impressione di essere perennemente nuovo, cioè vecchio. Persino a un occhio neanche troppo esperto, appare evidente come l’autore in questione esca con ogni nuovo film riscrivendo la storia del cinema, o per meglio dire ripercorrendola nei suoi punti di forza: dai generi cult fino agli impianti narrativi più solidi o alle trame leggendarie. Come in questo caso, in cui sfoggia una delle trame più care alla memoria (la fanciulla innocente cui la gemella maligna strappa l’amore del principe con l’inganno). E allora dov’è il nuovo? Come può considerarsi nuovo un autore che, nonostante le premesse (brillante studente di Harvard, inneggiato all’uscita di P greco...) strizza ambedue gli occhi ai classici e ai meno classici del cinema, e in questo caso anche a quelli del balletto? Ecco diciamo allora che in Black Swan più che in altre opere, il nuovo in Aronofsky non può e non deve sussistere nelle forme del compiacimento. Prima che giovane cineasta egli è uno studioso dei media e del cinema nella fattispecie, uno studioso tra l’altro molto attento a questa terza età della visione che inceppa continuamente sui suoi passi, incapace di creare nuove forme e sempre intenta a resuscitarne di vecchie. In Black Swan un ripensamento del fare cinema deve necessariamente verificarsi a partire dalle fondamenta, non solo del cinema, ma degli stessi miti che accompagnano ogni storia, ogni genere, quelle dicotomie millenarie del bianco e il nero, del bene e il male, del soggetto e il suo doppio, dell’eroe (eroina) e l’antagonista, insomma di tutti quei modi di pensare il mondo che sono ancora risorse da interrogare. E dunque il dramma in cui la premiata Natalie Portman è impegnata nella dura scalata alla conquista della vetta, è solo un pretesto per intessere trame anomale all’interno delle relazioni testuali.Quelle che intercorrono tra il libretto del balletto originale e la sceneggiatura ad esempio: nel film, l’amore innocente col principe si colora di tinte torbide fino a diventare un sacrificio verginale al drago, lo sdoppiamento fra i due sé introduce una terza figura che costantemente attenta alla conquista dell’altra parte di sé, il corpo della protagonista assorbe i caratteri dello spazio e degli agenti del testo, fino a quando Nina è anche Leroy (il cinismo) o Lily (credendo di uccidere lei uccide se stessa), la madre (il perfezionismo e l’ostinazione nell’arrivare) o la stessa Odette impaurita e fragile. Ma i rapporti iper-testuali non si fermano qui. Ricordiamo infatti come l’autore non prescinda mai dalla storia del cinema, che a ben guardare sembra aver sempre avuto un rapporto demoniaco con la danza. Tentando il comune approccio al movimento e ricalcandone il mito del dominio estremo del corpo, il cinema (pensiamo a The Company di Altman, o a Suspiria di Argento) ha sempre subito la seduzione quasi fatale della danza ( in The Company è forte la tentazione della macchina da presa di emulare l’armonia delle movenze dei corpi o di nicchiare con gusto sulle sapienti coreografie, e in Suspiria si opera una vera e propria deflagrazione dei corpi disciplinati delle ballerine...). In Aronofsky il rapporto fra le varie parti del discorso si risolve tutt’altro che nel conclamato thriller paranoico che ripresenta anche in questa sede. Il vero conflitto nasce e si risolve nella profonda duplicità che investe la pellicola e che culmina nel terzo e ultimo atto nella miracolosa scena della metamorfosi in cui i due termini, anche e soprattutto estetici, del bianco e del nero (preponderanti anche sul versante scenografico) vengono isolati e commistionati senza passare per le gradazioni intermedie. Diremmo che questo non è un film dalle mezze tinte e neanche dalle mezze misure (poiché non tenta il reimpasto mediato fra le componenti del film e le componenti parafilmiche e paracinematografiche di cui dicevamo: il copione originale, il rapporto con la danza, le dualità fra i personaggi e via discorrendo) e anzi è un’opera che si distingue per un uso pressocché netto degli archetipi, rinvigoriti e ripristinati nella loro forte rigidità: il passaggio dal bene al male è traumatico e repentino, brusco e scioccante (pensiamo alla scena in cui la vecchia ballerina, interpretata non a caso da colei che a fatica invecchia Winona Rider, aggredisce Nina nella Hall durante il ricevimento in suo onore, o quando sempre durante un loro confronto Nina immagina scene di truce autolesionismo da parte di Beth, o ancora la regressione del suo corpo con la brutale trasmutazione animale delle anche). L’ossessione della danza per il controllo dei corpi, diventa qui l’ossessione del cinema per il divenire delle forme, un divenire che nei momenti della trasformazione riscopre l’affanno, la lacerazione e il piacere estatico, anche quello dello sguardo che danza, esulta dinanzi al progredire in una nuova forma, non importa se è quella del male!


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