Brancaleone, il Don Chisciotte della commedia all’italiana

Nel 1966, con L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, la commedia all’italiana fa una felice incursione nel genere storico-fantastico abbandonando momentaneamente le ambientazioni nell’Italia del dopoguerra e dei primi anni del boom in cui si muovevano gli sgangherati personaggi de I soliti ignoti (1958) e lo spaccone protagonista de Il sorpasso (1962).
Tuttavia il manipolo di (anti)eroi che attraversa l’Italia medievale alla ricerca del lontano feudo di Aurocastro nelle Puglie ha ancora molto in comune con gli ignoti ladruncoli romani del precedente film monicelliano: l’inadeguatezza profonda dei personaggi di fronte al mondo e alla società cui non vogliono o non riescono ad integrarsi, la complicità che nasce solo in un momento di bisogno o di sventura, il divario incolmabile tra la grandezza dei fini a cui si aspira e la povertà dei mezzi per raggiungerli.
Vittorio Gassman, pugile fallito e sbruffone nella Roma in bianco e nero de I soliti ignoti, pochi anni dopo veste i panni variopinti di Brancaleone da Norcia, cavaliere dall’eloquio raffinato e irresistibilmente comico, che si racconta e si crede più nobile e valoroso di quanto appaia. Al suo seguito troviamo, tra gli altri, un bizzarro vecchietto che viaggia sempre insieme al suo inseparabile baule (ora dentro, ora fuori), interpretato da Carlo Pisacane, già compagno di sventura di Gasmann ne I soliti ignoti, nel ruolo del bolognese Capannelle. Il soggetto dei due film è in fondo sempre quello di un gruppo che si trova coinvolto in un’impresa al di sopra delle proprie reali possibilità, ed è in qualche modo votato allo scacco. Anche l’epopea raccontata ne La grande guerra (1959), del resto, è quella di un gruppo, o meglio di una coppia di personaggi, costretti loro malgrado in una situazione rischiosa e folle, che stavolta non appartiene solo al destino dei singoli ma alla grande Storia.
_ Nei tre film sono però molto diversi i meccanismi che creano quello scarto tragicomico tra i personaggi da un lato, e la dimensione socio-politica in cui vivono e le loro ambizioni personali dall’altro. La grande guerra sfida la censura e racconta una realtà brutale in cui c’è poco o nulla di eroico e romantico, mettendo finalmente alla berlina la vacuità della ridicola retorica militarista; il gesto finale dei protagonisti non rappresenta infatti una pacificazione con quella società che li ha obbligati alla guerra, ma al contrario inasprisce le tensioni ideologiche sottese nel film, poiché, per colmo dell’ironia, nessuno renderà onore a quei due soldati che, imprevedibilmente, alla delazione hanno preferito la morte. I protagonisti de I soliti ignoti invece sembra abbiano scelto di restare ai margini della società e vivere di espedienti, finché un giorno hanno l’occasione di mettere in atto il colpo che potrebbe cambiare finalmente la loro vita. Ma l’impossibilità e l’incapacità di portare fino in fondo certi propositi li porterà a fallire. Il divario che si crea e su cui Monicelli fonda il sentimento del comico che domina il film, è quindi soprattutto tra i desideri dei personaggi e la concreta possibilità di realizzarli. E’ come se gli stessi protagonisti, inconsciamente, facessero del tutto per impedire la riuscita del colpo.
Per il personaggio di Brancaleone il discorso è ancora diverso. Egli non frappone ostacoli tra i propri desideri e la possibilità di realizzarli, e neppure si trova costretto a interpretare un ruolo che non gli si addice, che gli sta stretto (come Jacovacci e Busacca ne La grande guerra). La comicità di Brancaleone è tutta nello scarto tra l’immagine oggettiva del personaggio e quella che lui ha di se stesso, tra la sua visione del mondo e la realtà che di volta in volta gli si para davanti. Sebbene le sue “schiere” siano un gruppo di poveri straccioni Brancaleone si rivolge loro come a un drappello di valorosi e gagliardi cavalieri, e ad ogni occasione freme per mostrare la propria forza e generosità d’animo, ritrovandosi puntualmente ripagato di tanta onestà e di tanto zelo con ogni sorta di ingiustizia. Si pensi al divertente episodio della bella Matelda, che Brancaleone, come ha giurato, decide di condurre vergine al promesso sposo, sforzandosi di ignorare le profferte amorose di lei. Proprio l’integrità morale del protagonista causerà l’ira della ragazza che, sentendosi rifiutata, si darà ad un altro e poi, di fronte al marito, accuserà Brancaleone d’avere abusato di lei, decretando così la sua condanna a morte (da cui tuttavia il cavaliere riuscirà a salvarsi).
Brancaleone eredita direttamente dal personaggio di Don Chisciotte l’appassionata ostinazione, l’incapacità di guardare alla realtà per quella che è e il bisogno ossessivo di nobilitarla, e come per l’hidalgo della Mancha uscito dalla penna di Cervantes, così per il cavaliere errante di Monicelli diventa incolmabile il divario tra la trivialità e la bassezza della realtà e la nobiltà degli ideali perseguiti. La sproporzione tra i due termini, in cui – come già detto – è il nocciolo della comicità che permea tutto il film, è resa dal regista non solo sul piano visivo ma anche e soprattutto su quello del linguaggio. La sceneggiatura è ancora una volta firmata da Age e Scarpelli, che per Monicelli hanno già sceneggiato, tra le altre cose, I soliti Ignoti, La grande guerra e I compagni, e che nel 1970 firmeranno anche il seguito de L’armata Brancaleone, Brancaleone alle crociate, dove Gassman sarà di nuovo il protagonista.
_ Il lavoro approfondito di Age e Scarpelli sulla lingua e sui dialetti che caratterizzano fortemente i personaggi monicelliani è già pienamente visibile ne I soliti ignoti, ma per la storia fantasiosa di Brancaleone si assiste alla vera e propria creazione di una koinè che mescola un latino maccheronico ai dialetti regionali italiani, con un paradossale ma assoluto effetto di verosimiglianza. L’enorme abilità istrionica di Gassman si impadronisce di questo linguaggio inventato fino a creare nello spettatore l’impressione di penetrare in una reale dimensione storica. L’attore spinge decisamente il personaggio sul versante della caricatura. Più il suo linguaggio e i suoi toni sono magniloquenti più la realtà è miserabile e piena di sventure. L’effetto iperbolico creato da questo scarto è infatti il perno su cui ruota tutto lo spirito del film, ed è un procedimento, uno spunto, sicuramente mutuato dal teatro, o meglio da un certo tipo di teatro in cui la recitazione – all’opposto del cinema – tende esplicitamente all’esagerazione o all’eccesso. Lo stesso Gassman del resto non è del tutto estraneo a certe caratterizzazioni tipiche della Commedia dell’Arte, come ad esempio la figura di Capitan Spaventa, millantatore e vanaglorioso al pari di molti personaggi magistralmente interpretati dall’attore; in questo senso è bene ricordare, oltre a I soliti ignoti e ai due film dedicati a Brancaleone, anche il ruolo di Gassman ne I picari (1987), che sebbene non centrale resta significativo.
E’ quindi innegabile che il dittico L’armata Brancaleone – Brancaleone alle crociate, pur essendo un’opera assolutamente originale e per certi versi “a sé stante”, mantenga un legame stretto col resto della filmografia monicelliana. Forse la singolarità e la peculiarità dei due film su Brancaleone sta proprio in questa rilettura del genere storico-fantastico attraverso la lente della commedia all’italiana, di cui qui si sente l’atmosfera e si ritrovano certe tematiche, trasposte in un medioevo caotico, fantasioso e spassoso. Il regista e gli sceneggiatori rielaborano e ripensano una determinata epoca storica con assoluta libertà, ed è da subito chiaro come la loro premura non sia quella di mettere in scena una rappresentazione realistica che trova il suo punto di forza nella fedeltà al vero, ma piuttosto quella di aprirsi alle suggestioni della fantasia con creatività e inventiva, soprattutto sul piano figurativo.
Ne L’armata Brancaleone, girato in luoghi suggestivi nei pressi di Viterbo e di Crotone, l’accuratezza e l’estro inventivo nella creazione dei costumi (per i quali Piero Gherardi vinse il Nastro d’Argento) si notano soprattutto in due sequenze: quella del banchetto di nozze presso il castello di Guccione, sposo di Matelda, e poi quella che descrive l’arrivo dei protagonisti al castello della famiglia del bizantino Teofilatto (Gian Maria Volontè) che, ripudiato dal padre, si è unito all’armata di Brancaleone. Teofilatto si accorda con gli altri per inscenare il suo stesso rapimento e chiedere così al padre un generoso riscatto, ma il sovrano rifiuta, contento di potersi finalmente liberare di un figlio illegittimo che chiama “vergogna del nome nostro, pecora nera, ladro e fannullone”.
Al dinamismo e ai colori vivaci della sequenza del banchetto di nozze, dove le nobildonne indossano cappelli ingombranti e sfarzosi dalle forme bizzarre, si oppone la penombra immobile delle scene ambientate presso la corte bizantina. La macchina da presa inquadra la testa di un pavone e con uno zoom all’indietro scopre che lo splendido uccello occupa il posto del sovrano sul trono. Ai suoi lati la nobile famiglia di Teofilatto sta perfettamente immobile, come in un prezioso dipinto, un ritratto storico con uno strano sapore di surrealismo. Poi una lenta panoramica da sinistra a destra si sofferma sui volti misteriosi e strambi dei personaggi, che ostentano la loro ieraticità e sfoggiano abiti e cappelli stravaganti quanto quelli delle dame alla corte di Guccione. In questa atmosfera grave e rarefatta, in questo silenzio pesante, perfino Brancaleone resta stupito, ma non sa trattenersi dal fare apprezzamenti osceni (sebbene a voce bassa) su una donna che si rivela essere la madre di Teofilatto. Il cavaliere viene poi conquistato dalla tenebrosa e perversa zia dell’amico bizantino, da cui purtroppo non riceverà l’amore che si aspetta ma molte frustate sulla schiena.
_ La comicità di Monicelli ritrova intatto il suo brio nel sequel Brancaleone alle crociate, che del primo film mantiene la stessa struttura accumulativa, il procedere per episodi che segnano le tappe e gli incontri dell’eterno viaggio di Brancaleone. Il cavaliere errante, che stavolta aspira nientemeno che alla conquista del santo sepolcro, sarà sostenuto da un’armata trasandata e scalcinata quanto la prima, e come l’Antonius Blok di Bergman ne Il settimo sigillo si troverà a dialogare con la morte. La Morte che mette in scena Monicelli tuttavia parla con un forte accento toscano, e come le maschere codificate della Commedia dell’Arte risponde, nelle sembianze, ad un certo stereotipo: abito nero, falce in pugno, e teschio al posto del volto. Diventa insomma un personaggio, funzionale allo sviluppo della narrazione quando alla fine del film si accontenta di prendere la vita della dolce strega Tiburzia (Stefania Sandrelli) al posto di quella di Brancaleone. Ma nel cinema di Monicelli, considerato uno dei massimi esempi della commedia italiana (non solo di quella commedia all’italiana che ha caratterizzato gli anni sessanta) il vero confronto con il tema della morte esiste, ed ha un peso non secondario, poiché rappresenta quell’elemento angosciante e doloroso che, quasi di soppiatto, fa da controcanto ad una comicità spontanea e sgangherata.
Nel dittico su Brancaleone sono presenti due sequenze speculari in cui il protagonista si concede una dissertazione consolatoria e al contempo amara di fronte alla morte. Ne L’Armata Brancaleone il cavaliere, insieme ai suoi compagni, prospetta al vecchio Abacuc ormai in fin di vita un aldilà in cui finalmente non esisteranno né fame né sete, né freddo e né pericoli. In Brancaleone alle crociate, al nano che si è unito al suo seguito e sta morendo ferito da una freccia, il protagonista racconta invece di un paradiso speciale per i nani, dove appunto i nani saranno altissimi. In queste due sequenze il tema della morte sembra quasi offuscare per un momento la dimensione comica in cui per il resto del tempo si sviluppa la narrazione, cosa che non avviene, ad esempio, ne I soliti ignoti, quando i protagonisti si ritrovano al funerale di Cosimo, o in Amici miei, in cui addirittura il funerale di Perozzi diviene pretesto per l’ennesima burla.
Del resto in molta parte della commedia all’italiana la rappresentazione della morte avviene senza sconti né edulcorazioni. Di ciò è esempio emblematico l’indimenticabile finale de Il sorpasso: il contrasto tra la componente tragica e quella comica si fa stridente, andando a costituire la cifra distintiva di uno dei film più riusciti di quegli anni, dei quali mette a fuoco anche certi aspetti sottilmente angoscianti nascosti dietro la patina rassicurante dell’immagine del boom economico. Il Gassman di Risi, nel film Bruno Cortona, coinvolge l’ingenuo Roberto (Jean-Louis Tritignant) in un viaggio improbabile, ed è per certi versi vicino al Gassman di molti film di Monicelli, estroverso e fanfarone. Tuttavia lo sguardo di Risi è penetrante quanto distaccato, e il protagonista de Il sorpasso non è scevro da un fondo di cinismo, quasi del tutto assente, invece, nei personaggi che popolano il cinema di Monicelli. Da I soliti ignoti a fino a Brancaleone, una delle peculiarità del regista toscano sembra essere proprio una profonda, affettuosa empatia con gli eccezionali protagonisti dei suoi film.
