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Burning - L’amore brucia

Pubblicato il 18 settembre 2019 da Matteo Galli
VOTO:


Burning - L'amore brucia

Presentato a Cannes nell’ottima edizione del 2018, Burning - sesto film di uno fra i più importanti registi coreani, ovvero Lee Chang-dong (1954), che torna a girare ben otto anni di distanza dal precedente Poetry - se ne venne via a mani vuote dal palmarès ufficiale, malgrado un pressoché unanime elogio da parte della critica (e infatti l’unico premio fu quello della FIPRESCI). Elogio che è continuato quando il film, con un certo ritardo e per così dire a ondate, ha cominciato a essere distribuito fuori dalla Corea del Sud (in Italia, sembra incredibile, arriva un anno e mezzo dopo). Valga fra i molti esempi di recensioni positive la critica letteralmente entusiasta di Katja Nicodemus, la raffinata firma numero uno del settimanale tedesco Die Zeit, che ha gridato al capolavoro definendo Burning, senza ironia alcuna, uno dei più grandi film di sempre! Anche meno, forse. Il film è comunque notevole assai per numerose ragioni.

In primo luogo rappresenta un caso fra i più riusciti e originali di trasposizione cinematografica, essendo tratto da un breve racconto di Haruki Murakami, risalente a più di trent’anni fa e intitolato Granai incendiati: l’impalpabile magia, con una continua e vaga sospensione fra realtà e finzione, tipica dello scrittore giapponese si è trasformata, gioco forza, nel film in una maggiore concretezza di dettagli, che nel racconto originario non c’era, nel rispetto di alcune caratteristiche salienti del plot ma non di tutte, anzi con sensibili variazioni. In secondo luogo funziona molto bene la “indecisione” drammaturgica del film che mescola sapientemente il dramma sociale con punte anche estreme di conflitto che quasi si vorrebbe chiamare di classe, gli stilemi del melodramma freddo, certe convenzioni del thriller utilizzando una forma di racconto ellittica e laconica, e infine le caratteristiche di un dramma metafisico in cui è in ballo niente meno che il senso dell’esistenza e la felicità (la metafora della grande fame e della piccola fame, presa in presto dai Boscimani) – tutte cose che ricordano i grandi maestri del cinema (e della letteratura) modernista: da Godard a Truffaut, da Antonioni a Resnais, per arrivare ad Angelopulos, di cui qua e là riprende certe lentezze, ma anche Faulkner (esplicitamente citato) e Joyce. In fondo il film sembra una via di mezzo fra Jules et Jim e L’avventura.

Un triangolo amoroso fra una donna apparentemente risoluta ma fragilissima, aerea e narcolettica a un tempo, che appare, scompare, riappare per poi scomparire per sempre (si può intuire cosa sia successo ma non vi è alcuna certezza) e i due uomini fra i quali è sospesa: il primo, che è poi il protagonista, è una figura anch’essa enigmatica, probabilmente traumatizzata da una costellazione familiare complicata e che si è ritirato a vivere in una casa di campagna fatiscente nel paese dal quale anche la donna proviene, più una fuga che una scelta, la sua, ma che sogna di diventare scrittore non si capisce se disponendo di vero talento oppure no; l’altro, una specie di Gatsby, come viene detto esplicitamente una volta, un dandy che non si capisce davvero cosa faccia, con cui la protagonista improvvisamente ricompare al ritorno da un viaggio in Africa, un uomo probabilmente ricco sfondato, a giudicare da come si veste e dalla casa in cui abita, che confessa una virulenta passione incendiaria, di stampo assurdo-esistenzialista dove i granai del racconto di Murakami si sono trasformati in serre.

Attraverso pochi incontri che evitano come la peste la psicologia semplicistica, indulgendo semmai qua e là a qualche breve dialogo solo apparentemente autoconclusivo, il regista descrive in modo allusivo le costellazioni venutesi a creare fra i protagonisti, il triangolo amoroso che esita nella conclusione drammatica, lontanissima dalla fonte originaria. Vi sono in Burning alcune sequenze memorabili che tornano continuamente in mente anche a distanza di giorni, e si tratta in larga parte di sequenze mute: il primo e unico rapporto sessuale fra il protagonista e la ragazza, con lui clamorosamente distratto, la danza in topless di lei con musica di Miles Davis (altra citazione modernista: Ascensore per il patibolo), il rapporto col gatto reale/immaginario, la pantomima col mandarino (questa sì proveniente dal racconto di Murakami) ma anche la drammatica scena finale è splendida. Forse, tuttavia, un piccolo taglio di un dieci-quindici minuti non avrebbe fatto male al film.


CAST & CREDITS

(Burning); Regia: Lee Chang-dong sceneggiatura: Lee Chang-dong, Oh Jung-mi; soggetto:Haruki Murakami fotografia:Hong Kyeong-pyo; montaggio: Kim Hyeon, Kim Dawon; interpreti: Yoo Ah-in (Jong-su), Jeon Jong-seo (Hae-mi), Steven Yeun (Ben), produzione:Thunderbird; origine: 2019; durata: 148’


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