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Callas forever

Pubblicato il 8 settembre 2002 da Alessandro Izzi
VOTO:


Callas forever

Pare che Zeffirelli accarezzasse l’idea di un film su Maria Callas già da molti anni, ma che non abbia mai posto mano, concretamente, alla realizzazione di questo laborioso progetto perché nessuna delle idee che gli venivano proposte (e sembra fossero molte) gli sembrava sufficentemente “rispettosa” verso l’inarrivabile statura di quella che, non a torto, viene considerata una delle voci più grandi della storia della lirica.
Solo una volta trovata la giusta luce nella quale raccontare le vicende umane ed artistiche della cantante, è stato, alla fine, possibile avviare una produzione che si è vista, sempre e comunque, ossessionata dai dettami di un rispetto quasi maniacale per i dettagli storici (Zeffirelli, si sa, si è sempre voluto quale continuatore della difficile eredità di Visconti).
Ne è venuto fuori un film che è stato presentato al pubblico quasi fosse una specie di evento mediatico, con l’idea, insistentemente ribadita, ma mai espressa realmente a parole, che la pellicola altro non fosse che l’opera di una vita, il punto di arrivo di una riflessione portata avanti addirittura per decenni.
L’idea di fondo, quella che regge, quasi fosse una colonna portante, il senso ultimo di questo progetto è quella di presentare alle nuove generazioni (che non hanno potuto avere la possibilità di vedere la Callas dal vivo) i valori del Bello e dell’Arte che ella ha sempre incarnato ogni qual volta ha dato voce e respiro ai grandi capolavori musicali del passato. Ne sarebbe dovuto venir fuori il ritratto di una donna a tal punto ossessionata da questi valori da non volere e non potere mai scendere a compromossi con quell’orribile bestia che è l’approssimazione: il vero ed unico male dei bigi tempi nei quali viviamo.
Completamente immersa nella sua personale ricerca della perfezione, ma anche fedele ai dettati di una profonda lealtà etica e spirituale verso il suo pubblico, la Callas si prestava perfettamente ad essere, oggi, la portavoce ideale di valori assolutamente inattuali e la sfida di Zefferilli avrebbe dovuto essere quella di portare i giovani a simpatizzare proprio con idee che non riescono più a sentire proprie.
Nel far questo il regista pesca a piene mani da tutta una tradizione di biografie romanzate, in cerca degli angoli più giusti per riuscire a vivificare il più possibile il ritratto di quella che avrebbe potuto essere solo la storia di una grande cantante. Poiché anche l’artificio di decidere di raccontarne la storia partendo dalla fine, in un malinconico ricordo dei tempi che furono, sembrava troppo poco, Zeffirelli non ha esitato ad inventare di sana pianta il ritorno della cantante sul palco poco prima della sua morte, introducendo il tema di una sorta di patto faustiano con un produttore cinematografico (nel quale il regista riversa non pochi motivi autobiografici) che avrebbe doppiato le immagini del presente con la voce di una vecchia registrazione della stessa Callas.
Consapevole del fatto che i ragazzi di oggi non hanno alcuna familiarità con l’opera lirica, Zeffirelli decide di aprire la pellicola in un modo che possa apparir loro famialiare, con un brano di puro punk-rock (i Bad dreams: una band londinese che non comparirà, comunque, mai nella pellicola) e, abbandona ogni presiosità fotografica, affidando tutto il peso della parte introduttiva ad una luce cruda, color carne, con immagini sgranate e povere da film anni ’70. A questa immagine realisticamente grigia viene contrapposto lo splendore delle scene operistiche (e dei sogni/incubi della Callas che a quel teatro necessariamente fanno riferimento) con colori rutilanti da techicolor: giallo, bianco, rosso in un tripudio di banalità kitsch.
Considerando, forse, le giovani generazioni come fossero degli emeriti imbecilli, Zeffirelli affoga il suo racconto in facili didascalismi, grida ai quattro venti il senso delle sue scelte stilistiche (?) e sommerge i personaggi in un mare di motivazioni psicologiche da manuale di quarta elementare. Gli attori si aggirano, per questo, spaesati tra scenografie dettagliatissime, e anche Fanny Ardant, che riesce ad appropriarsi della fisicità del personaggio in maniera ammirevole, finisce per ingenerare, qua e là, il sospetto di un’adesione solo superficiale al personaggio. Ma il problema principale del film è che le idee di fondo: il valore etico dell’arte, la posizione dell’artista nei confronti del proprio pubblico, il dolore di vedersi sopravvivere, che, sulla carta, appaiono straordinariamente interessanti, restano, a conti fatti, dei meri pretesti per una messa in scena imbarazzantemente dilettantesca.

[settembre 2002]

(Callas forever); Regia: Franco Zeffirelli; sceneggiatura: Martin Sherman, Franco Zeffirelli; fotografia: Ennio Guarnieri; montaggio: Sean Barton; musica: Alessio Vald; interpreti: Fanny Ardant, Jeremy Irons, Joan Plowright, Jay Rodan, Gabriel Garko; produzione: Medusa Film, Cattleya, Film and General Production (Londra), Galfin (Parigi), Madiapro Pictures (Bucarest), Alquimia Cinema (Madrid); origine: Italia, Francia, Gran Bretagna/Spagna, 2002; durata: 111’

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