C’era una volta a...Hollywood
Il Nono film di Quentin Tarantino, inizia come l’ultimo movimento della Nona di Beethoven, che prima di lanciarsi nell’Ode alla Gioia, cita rapidamente i tre movimenti precedenti. Tarantino, prima di abbandonarsi alla sua smisurata Sinfonia Hollywoodiana in lode all’Olimpo californiano del Cinema del 1969, inserisce richiami ai suoi titoli degli anni passati: Jackie Brown, Inglourious Basterds, Django, per introdurci nel mondo del cinema di serie B che da sempre corteggia, argomento centrale, stavolta, di Once Upon A Time In Hollywood, ode sinfonica e corale alla gioia, o meglio alle gioie (così come ai dolori) che il cinema regala sia a chi lo guarda che a chi lo fa. Quel cinema che nel 1969 conobbe l’irripetibile apice di un’età dell’oro, interrotta brutalmente dall’efferato omicidio di Sharon Tate, moglie incinta di Roman Polanski (che ai tempi era in Inghilterra per motivi di lavoro), barbaramente uccisa la notte del 9 agosto insieme ad altri quattro amici nella sua casa di Beverly Hills dai seguaci di un criminale imbecille (morto due anni fa a 83 anni) che gode ancora oggi di simpatia e ammirazione per le sue idee esoteriche da guru del Male Puro. Uno di quegli eventi paragonabili all’11 settembre 2001, dopo i quali, cioè, il mondo non è più lo stesso di prima.
È praticamente impossibile spiegare le autentiche ragioni dell’immensa grandezza del nuovo film di Tarantino senza rivelare l’idea che sta alla base del suo intero impianto narrativo, ma si farebbe un doppio torto sia agli spettatori (stiamo infatti parlando di uno dei più clamorosi colpi di scena della storia della drammaturgia universale) sia al film stesso, che da essa stessa trae la propria sostanza e ragion d’essere di evento artistico. Lo stesso Tarantino, da Cannes dove il film è stato presentato in concorso e in prima mondiale, ha pregato tutti i giornalisti accreditati al Festival di non rivelarne il finale. Si tenterà quindi di fornire altre motivazioni per invitare a valutarlo per quel sensazionale capolavoro che è e che va ad aggiungersi al già nutrito corpus sinfonico di uno dei massimi autori viventi del cinema non soltanto statunitense, senz’altro tra i più influenti e imitati.
L’intero film procede correndo e volando sulle strade della Mecca del Cinema dipinta così come era in quel 1969, tra le insegne luminose e i banner delle sale cinematografiche con i titoli dei film in programmazione a caratteri rimovibili, i poster in gigantografia delle uscite recenti o imminenti (c’è anche quello di 2001, ovviamente), in tutte le ore del giorno dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, con un senso immanente di qualcosa che sta per accadere: la tragedia di Cielo Drive (l’indirizzo della casa dei Polanski), così come quel cambiamento che avrebbe segnato il passaggio di età del cinema americano da una ritrovata adolescenza postbellica sulla spinta del boom economico, allegra, spensierata, dorata, ma anche viziata e viziosa, indulgente verso le lusinghe delle droghe allucinogene, di una musica sfrenata, euforica e ritmicamente bacchica, a quella improvvisa, quasi forzata età adulta cui lo costrinsero la guerra del Vietnam e tutte le altre istanze sociali e politiche, puntualmente registrate e restituite sullo schermo cinematografico, da sempre specchio della coscienza di una Nazione che fin dagli inizi aveva usato il cinema per costruire la propria epopea e la propria mitologia. In quell’età di Pericle, di Augusto, in quel Rinascimento fiorentino, in quella luminosa e sfarzosa Versailles, in quella Vienna gaudente e danzerina della Felix Austria cui si potrebbe paragonare la Hollywood della fine degli anni ‘60, il cinema conviveva serenamente con la televisione, cui forniva divi e divette sul crinale di un endemico calo di popolarità, perché si riciclassero, a volte coronando un successo mai raggiunto prima, sul piccolo schermo. Leonardo DiCaprio dà il suo volto e il suo corpo di bambinone appesantito a uno di questi attori baciati da una popolarità sempre in bilico tra cinema e telefilm televisivo, che sognerebbe di fare del cinema per davvero: purtroppo, la consapevolezza dell’età che avanza sul binario di un’autodistruzione incontrollata a base di alcool e di sostanze stupefacenti, e della scarsità di talento, non fa che accrescergli complessi e insicurezze. Ha un Doppelgänger, il suo stuntman, che gli funge anche da maggiordomo e da amico del cuore, tutto muscoli e pragmaticità West Coast, e che ha le fattezze del dio greco per eccellenza della nostra contemporaneità, anche lui nell’ultima fase di una fisicità prossima a cedere, ma ancora squillante degli ultimi sprazzi di una bionda perfezione sul limitare di una inevitabile decadenza: Brad Pitt. Di entrambi, Tarantino segue e insegue con la cinepresa le gesta dentro e fuori dai teatri di posa degli studios che tra realtà e finzione fungono da sfondo costante allo scorrere delle loro vite vissute all’insegna della rincorsa del sogno di una gloriosa eterna giovinezza, in un continuo entrare ed uscire senza cut dalla vita fisica e reale del ‘nostro’ tempo che passa, dove non è permesso ripetere una scena o correggere i propri errori, nel tempo del cinema, che invece brilla e vibra della luce eterna del proiettore su cui scorrerà la pellicola che ne è rimasta impressionata. Si diceva dei richiami iniziali ai film precedenti di Tarantino: è in questi momenti di presentazione del ‘lavoro’ dei due protagonisti di Once Upon A Time In Hollywood (‘C’era una volta...’ come nelle favole... Accidenti al pericolo di spolier!) che Tarantino si diverte a citarsi, e a ricreare nuovi set ispirati ai generi che a loro volta avevano ispirato alcuni dei suoi film recenti: il film sui nazisti cattivi, il Western, e gli arrivi e le partenze negli aeroporti, parte essenziale della popolarità dei divi dell’epoca, accolti o salutati dai paparazzi e dalle troupe della televisione e della radio. La vicenda di Sharon Tate si insinua nell’affresco generale di questa Fiera delle Vanità come la tessera più brillante e vistosa di un mosaico: il fulgore di un angelo biondo e bellissimo nel fiore degli anni, come la giovane Lady Polanski, oggetto di uno sguardo segnato, prima che dalla pietà consapevole della sua futura fine tragica, da una quasi paterna amorevolezza: Tarantino le dedica una delle sequenze lunghe più straordinarie e significative della propria intera cinematografia quando la segue nella sua passeggiata per le strade di Hollywood (questa si può raccontare: sta anche nel trailer) fin dentro un cinema dove la splendida star, davvero venuta in terra a miracol mostrare, si accomoda discretamente tra gli spettatori per riguardarsi in un film con Dean Martin e si rallegra gongolando della simpatia che il pubblico tributa con risate e applausi alla ‘lei’ che rivive sullo schermo.
Ma c’è anche il Male che assedia le mura di questo mondo perfetto e tutto d’oro che non può durare: nella lontana periferia, al di là delle highways e delle zone desertiche, sul limitare delle colline brulle che i turisti visitano a cavallo per ripercorrere le gesta dei cow-boy della propria infanzia, vive una schiuma sociale che cova rancori, rincitrullita dalla televisione ‘che non fa che insegnare ad ammazzare la gente’, e che riempie il vuoto di giornate trascorse a dormire e a ciondolare nelle roulottes e nelle baracche, e ad abbracciare per assenza totale di altri punti di riferimento il lato oscuro delle suggestioni eversive della cultura e della filosofia hippie, mostrata da Tarantino con inedita acrimonia e spudorata repulsione (là dove almeno esprime simpatia e umana indulgenza verso i propri infantili protagonisti). Anche in questo caso, Quentin il Magnifico orchestra una sezione complessa e articolata, e mette in scena con magistrale efficacia quell’America malata e mentalmente disturbata di cui il cinema si occuperà nel decennio successivo, con l’evoluzione dell’Horror in un’analisi ancora più inquietante nelle zone insondate della mente e della follia...
No, davvero non si può dire di più, dovendo rispettare il limite imposto di non rivelare altro, se non della consueta, e dunque sempre sorprendente abilità di Tarantino di filmare uomini, cose e spazi (e animali: il cagnolone di Brad Pitt è già su un podio d’onore della nutrita mitologia canina in celluloide) con l’agilità e la leggerezza del volo e della danza, mai con movimenti esornativi e fini a se stessi, ma sempre con l’intento di tirar dentro, come un papà tiene per la manina il figlioletto che per la prima volta sale su una giostra, il suo pubblico perché non perda un solo dettaglio della qualità dell’intrattenimento che ha allestito per lui. Celluloide, sì: avete letto bene. Perché non può chiudersi un discorso su Once Upon A Time In Hollywood senza un riferimento anche veloce all’uso della pellicola. Solo utilizzando il 35 mm era possibile restituire la pasta e la luce vespertina di un periodo che tutti (o almeno chi c’era) ricordiamo con i colori carichi dei raggi solari attraverso le porte dei Saloon, degli spugnosi magenta e cyan delle insegne luminose dei benzinai e dei ristoranti on the road, dell’azzurrino smoccolato degli schermi televisivi dove andava poco a poco trionfando (negli USA) un colore ancora più denso e marcato di viraggi verde militare e rosso sangue...
Sul serio, non si può dirvi di più. Se non un’ultima cosa, questa sì: che Once Upon A Time In Hollywood, come pochissimi altri film di ogni epoca (e i primi a venire in mente sono Brigadoon di Vincente Minnelli e La Finestra Sul Cortile di Hitchcock), ‘dice’ una delle cose più belle che siano mai state dette del cinema dal cinema. Basta. Stop. Cut.
Fine rullo.
(Once upon a time in Hollywood); Regia: Quentin Tarantino; sceneggiatura: Quentin Tarantino; fotografia: Robert Richardson; montaggio: Fred Raskin; interpreti: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino; produzione: Columbia Pictures; distribuzione: Sony Pictures; origine: Usa, 2019; durata: 161’