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Cella 211

Pubblicato il 15 aprile 2010 da Nicola Lazzerotti


Cella 211

Juan Olivier (Alberto Ammann) ha trovato lavoro come secondino, prima di iniziare il nuovo impiego il ragazzo viene guidato nel carcere per imparare il nuovo mestiere. Nel mentre, il prigioniero speciale Malamadre (Luis Tosar) dà il via a una violenta rivolta che blocca il ragazzo all’interno del carcere. Ora al giovane non rimane che improvvisarsi anche lui prigioniero e cercare di salvarsi la vita.

Celda 211 è una boccata d’aria nuova, un profondo respiro che non può lasciare indifferenti, un film potente che, costruito tenendo saldamente presente le tre unità aristoteliche, si sviluppa all’interno di pochi ambienti claustrofobici e inumani. Il regista porta avanti una logica di accumulazione di tensione che con un’inusitata messa in scena stordisce lo spettatore per tutti i 111 minuti.
A dare forza al film una scrittura fluida che, senza esitazione, guida lo spettatore attraverso le quasi due ore di proiezione, lasciandolo in un continuo stato di fermento e di turbamento. A guardare bene ci si rende subito conto che la ragione del film si manifesta nella volontà degli autori di portare fino in fondo un’analisi spietata del comportamento umano. Comportamento che potremmo definire antropologico in senso lato: se infatti al centro dell’analisi persiste la figura umana, è altrettanto vero che le circostanze in cui questa analisi è posta in essere sono espresse come situazioni limite, con l’intento provocatorio di ridefinire e scostare quell’opinione generale, spesso semplicistica, che si ha degli individui e della società.
Il primo punto in gioco è proprio la certezza sulla definizione di ruolo dei personaggi. Alla comune idea manichea e didascalica di divisione tra ‘Buoni e Cattivi’ si oppone un’operazione concettuale di movimento morale continuo di ruoli, in cui si perdono quelle definizioni assolute sui personaggi per delle posizioni che potremmo definire relative. Tale movimento fa slittare questi concetti normalmente codificati, per individuare quindi una nuova forma di Nemico. Se nella prima parte dell’opera, infatti, matura nello spettatore una certa idea di film, che non vogliamo raccontare, questa viene completamente stravolta nella seconda. A rendere possibile e soprattutto credibile questo è il profondo rispetto che gli autori hanno avuto verso i loro personaggi, tratteggiati fino alla fine con una coerenza e con un realismo insoliti. E allora appare assolutamente credibile il rapporto virile e solidale che si viene a creare tra i due protagonisti. Credibilità che nasce dalla condivisione del dolore, Malamadre accetta Juan solo perché lo crede brutalizzato dalle guardie, riconoscendo in questo un punto in comune, di contatto potremmo dire, che si ripeterà anche quando i nodi verranno al pettine.
A vedere bene ci si rende subito conto, allora, che il vero Nemico sono le istituzioni, in grado di relazionarsi con i singoli individui, carcerati o carcerieri che siano, mostrando un unico intento ed un’unica propulsione, quella del mantenimento dello status quo e per questo capaci di calpestare anche i più elementari diritti.
Ad amplificare tutto il degrado umano una sontuosa regia. Monzón adotta infatti uno stile crudo e realista giocando su elementi come la carne e i sangue onnipresente in tutto l’opera. Nel film i corpi traumatizzati mostrano e amplificano tutto il dramma esistenziale dei personaggi ed è proprio l’evidenza di tali ferite, che marchia e segna i protagonisti proprio come le coscienze degli spettatori.


CAST & CREDITS

(id); Regia: Daniel Monzón; sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría e Daniel Monzón tratta dal romanzo di F.P. Gandull; fotografia: Carles Gusi; montaggio: Mapa Pastor; musica: Roque Baños; interpreti: Luis Tosar (Malamadre), Attore 2 (Juan Olivier), Marta Etura (Elena), Carlos Bardem (Apache); produzione: Morena Films e Canal+; origine: Spagna, Francia, 2009; durata: 111’


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