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Cinema della crisi (del cinema)

Pubblicato il 21 gennaio 2001 da Alessandro Izzi


Cinema della crisi (del cinema)

Il 1976 è una data spartiacque nella storia del nostro cinema. Il periodo immediatamente precedente è ancora legato indissolubilmente al grande boom produttivo degli anni ’60 con una produzione che aveva toccato, nel solo 1974, la cifra di ben 280 film. Quello che viene dopo è, di fatto, cinema della crisi. Crisi produttiva, crisi di idee, di talenti, di nomi, di film. Ma è una crisi che non coinvolge solo il cinema in quanto tale, ma che riguarda la società nella sua interezza. Sono perdute le certezze politiche, morali, private dell’uomo medio italiano: tutto scivola, piuttosto, verso un inesorabile declivio che, ancora oggi, non abbiamo finito di percorrere fino in fondo. Tra il 1974 e il 1976 (ancora questa data!) muoiono i tre padri fondatori del neorealismo. Ovunque si respira il clima della fine di un’epoca, in ognuno si fa strada l’esigenza di trovare una nuova direzione e la consapevolezza di non avere le spalle abbastanza grandi per sostenere il peso di una nuova tradizione.

Ma il 1976 è anche la data dell’esordio al lungometraggio di Nanni Moretti con Io sono un autarchico che di questa situazione, così sciatta da non arrivare nemmeno ad essere disperata, è il cantore contemporaneamente critico ed autocritico. Dietro la facciata ingenua del suo cinema e dei suoi personaggi, spesso sgradevoli, Moretti porta avanti un’analisi spietata del mondo che lo circonda riflettendo, nel bene come nel male, tutte le contraddizioni di un periodo che ha letteralmente perso la bussola, con la particolarità, rispetto agli autori suoi coetanei, di voler restare sempre profondamente radicato in quella che è la realtà politica italiana. Se Salvatores fugge all’estero in cerca di un mitico altrove, lontano dalle beghe di una realtà confusa, di un meccanismo televisivo fagocitante, e se Tornatore si rifugia dietro la favola bella di un cinema che fu e che non sarà mai più (ma non è questo l’unico tema delle sue pellicole!), Moretti, al contrario, si immerge profondamente in quel tessuto sociale dagli altri temuto e come rimosso. E se lo sguardo di quei due cineasti ci parla dell’Italia contemporanea lo fa solo in maniera indiretta, ora muovendo verso l’utopia un po’ baraccona di Mediterraneo (che nel suo italico sapore alla "Pizza e birra" non poteva non piacere agli americani), ora verso la nostalgia di L’uomo delle stelle che nasconde, dietro la metafora amara del mercante di fumo, il senso della perdita di ogni certezza. In un cinema che non vuole più essere italiano, ma che aspira all’Europa in un trionfo di spesso angoscianti fiabe moderne (Una pura formalità), bellissime, profonde, ma senza patria come il pianista della recente leggenda. Conservando d’italiano solo un retrogusto da esportazione. Solo Martone, l’ultimo della generazione di mezzo ad esordire nel lungometraggio, riesce ad affondare lo sguardo nel buio di una realtà osservata in tutta la sua terribile abiezione. In una sorta di neorealismo della mente (vedi l’orrore di Morte di un matematico napoletano), quest’ultimo autore si costruisce una nicchia tutta sua in cui l’assurdo dell’esistenza si palesa di colpo, senza preavviso, nei luoghi più concretamente realistici, in una lezione di stile destinata a restare senza alcun seguito.

Sicchè questi quattro registi si risolvono in altrettanti capitoli, diversissimi tra loro, eppure tanto simili, del Caro diario di un’Italia sempre più ridanciana e pieraccionica in cui —avverandosi la triste massima di Moretti- non si può più parlare di un nuovo modo di fare cinema, ma solo di nuovi incassi italiani. Ed era una boutade del 1981!


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