X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Civiltà perduta

Pubblicato il 22 giugno 2017 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Civiltà perduta

James Gray è tra i registi statunitensi sotto i 50 anni il più elusivo e sfuggente, e ogni suo nuovo film, pur inscritto entro un genere preciso (il noir, il dramma sentimentale, o, come in questo caso, il film d’avventura e di viaggio in continenti esotici e misteriosi), offre spunti di lettura e riflessione ben al di là di un generico giudizio stigmatizzabile in un voto o in un numero di stellette da 0 a 5. Per quanto deludente, infatti (almeno a parere di chi scrive), questo suo The Lost City of Z. – passato fuori concorso al Festival di Berlino ed ora nelle sale italiane con il titolo Civiltà perduta – non può venir liquidato sommariamente come un film brutto o poco riuscito. Di certo è il film che Gray aveva in testa di realizzare, ed è semmai un altro l’argomento più interessante a proposito di questo come di ogni suo altro lavoro.

Chiunque scelga di percorrere le strade di questo o quel genere cinematografico, spesso regolate da codici rigorosi e prestabiliti, è consapevole dell’eventualità di cadere in trappole talmente insidiose da rischiare di mancare clamorosamente il bersaglio. Fatto sta che nonostante i toni morbidi e discreti della sua narrazione, Gray è in realtà autore parecchio audace, che usa il genere come griglia da rimescolare in ben più complessi ordini di lettura, tanto da disorientare il suo pubblico che spesso finisce con l’annegare nell’incomprensione. Come nel caso del magnifico Two lovers, rifiutato da chi credeva di assistere ad una pur complicata relazione sentimentale, e incapace di accorgersi oltre quali confini si sia spinto un film in grado di scandagliare il limite della “normalità” di una mente umana toccata dal disturbo mentale, e di trasmetterne il disagio. O come nell’altrettanto splendido The Immigrant, tradotto dalla distribuzione italiana in C’era una volta New York, con evidente richiamo al C’era una volta in America di Sergio Leone, che in realtà era una lirica e pucciniana sinfonia sullo spaesamento e sulla fatale distanza della patria natìa nel contesto delle comunità di migranti europei nell’America degli anni ’20 del secolo scorso.

Di nuovo un film in costume, questo Civiltà perduta, prodotto da Brad Pitt che inizialmente doveva esserne il protagonista, poi sostituito da Benedict Cumberbatch, rimpiazzato a sua volta, per inconciliabilità con altri impegni, da Charlie Hunnam: è lui a vestire i panni di Percy Fawcett, personaggio realmente esistito, militare nell’esercito di Sua Maestà Britannica con scarse possibilità di carriera nell’Inghilterra edoardiana ancora divisa in rigide caste sociali negli anni intorno al Primo Conflitto Mondiale. La Royal Geographic Society gli offre la possibilità di un riscatto sociale affidandogli una missione in Colombia, paese inesplorato dove sono in corso delle controversie territoriali tra Brasile, Perù e Bolivia. Fawcett lascia così moglie e figlioletta e intraprende, non senza aver nuovamente ingravidato la consorte, il primo di una serie di viaggi di andata e ritorno da e verso un continente che progressivamente esercita su di lui una fascinazione fatale. Si fa strada nella sua mente l’ipotesi di una civiltà scomparsa, un primigenio mondo perduto da scoprire, una convinzione che cresce fino a diventare un’ossessione, ancor più acutamente dopo lo scoppio delle ostilità che lo richiameranno in patria e lo porteranno a vivere in prima persona l’assurda carneficina dei combattimenti in trincea: la dissoluzione volontaria del mondo cui appartiene lo induce a ripartire per l’ennesima volta, divenuto ormai il più celebre esploratore britannico, e a portare con sé il figlio maschio, nato nel corso della sua prima, lunga assenza, e con il quale non ha mai avuto modo di costruire quel legame che le comuni avventure in quelle terre lontane irrobustiranno e cementeranno… Nel 1925, in Amazzonia, Percy Fawcett scomparve in circostanze mai chiarite insieme al figlio Jack, per entrare nella leggenda, e ispirare una serie di personaggi tra cinema e letteratura che vanno dal professor Challenger de Il mondo perduto di Sir Arthur Conan Doyle (amico personale di Fawcett) fino a Indiana Jones, che nel libro uscito dopo la trilogia cinematografica di Steven Spielberg Indiana Jones: i sette veli parte per l’Amazzonia dopo aver consultato gli appunti manoscritti di Fawcett sulla ricerca della misteriosa città perduta.

Materiale bollente, dunque, che James Gray ha affrontato con il proprio consueto slancio di sfidante estremo, a partire dalla decisione, presa insieme al suo geniale direttore della fotografia Darius Khondji, di girare Civiltà perduta in loco, cioè nella giungla amazzonica, e in pellicola: era infatti sua intenzione conferire alle immagini un’aura e un respiro da film epico degli anni ’60 (vistoso è il frequente riferimento a David Lean: il rigagnolo di whisky versato seguito dallo stacco su un treno in corsa ricorda il celebre fiammifero sul tramonto del deserto di Lawrence d’Arabia), tinteggiati però di quelle inquietudini che la “nuova Hollywood” del decennio successivo insinuò negli ostili paesaggi naturali da Un tranquillo week end di paura ad Apocalypse Now. Ed è proprio il glorioso finale di Apocalypse Now ad aleggiare nella bellissima parte conclusiva di Civiltà perduta, quando cioè un film, come si accennava, non del tutto riuscito, trova compimento intenso e nobile adombrando una possibile versione della scomparsa di padre e figlio, nella rappresentazione stordita e onirica di un sacrificio tribale che sa di rito iniziatico verso quella perdita di identità nel ritorno entro il mistero insondato della nascita, del mondo ormai ferito a morte e condannato a estinguersi da cui sono bene o male fuggiti i due cittadini britannici, non prima di aver chiuso quel cerchio naturale impossibile da riallacciarsi altrove che è il riaccostamento tra padre e figlio, costretti a vivere separati e sconosciuti dalle convenzioni di una comunità di viventi che ha immolato se stessa sprecando e tradendo il tesoro della civiltà ricevuta in lascito, ora finalmente vicini nel cuore e nell’anima.

Quello che tuttavia lascia insoddisfatti, e che spegne un possibile giudizio entusiasta sul film, è che stavolta il tocco di Gray non giova all’empatia degli spettatori con i personaggi illustrati, e l’eccessivo understatement – da non confondersi con freddezza o sciatteria, beninteso – finisce per segnare una distanza tra l’audience e quanto accade sullo schermo, che resta troppo spesso incolmata nel corso della visione. E’ chiaro quanto Gray ci tenga a riservare tutto il proprio interesse e la propria simpatia di narratore al suo protagonista, nel tentativo di sviscerarne senza enfasi né didascalie l’interiore dissidio, il fuoco di una magnifica ossessione che gli fa sacrificare patria e famiglia a rischio della vita nella giungla e negli insidiosi fiumi della foresta amazzonica: ma è questo già noto, stravisto repertorio di selvaggi armati di archi e frecce avvelenate, di bestie feroci, di pesci carnivori, di rapide, canoe, feste tribali, insetti, a risultare poco convinto, senza mai accenderci quell’infantile tensione destata in più generazioni dai film di avventura di una volta, forse più ingenui e più sommari nel dividere sulla lavagna i buoni e i cattivi, ma infinitamente più efficaci nello scatenare scatti di emotività e attiva partecipazione alle disavventure dei malcapitati esploratori. Non aiuta una colonna sonora, firmata da Christopher Spelman, certamente sontuosa, sinfonica e avvolgente, che non si perita di ricorrere ad ampie citazioni letterali della Sagra della Primavera di Stravinsky e del Daphnis et Clohè di Ravel (più che un uso un abuso, forse, del Lever du jour, per enfatizzare più volte, troppe volte, i momenti cinematograficamente più spettacolari, con sgradito effetto di assuefazione), ma che nella scelta di una costante magmaticità soporifera, trova solo nel finale sospeso tra ipnotico oblio e cupio dissolvi una sua giustificata ragion d’essere.

Peccato, perché il gran lavoro del cineasta di qualità superiore è percepibile di continuo dall’occhio che sa riconoscerlo, con particolare attenzione alle prestazioni attoriali: se Charlie Hunnam ha tutte le caratteristiche del “bello e famoso” richieste da Gray, espressamente per provvedere a contenerle e incanalarle in una recitazione nobilmente compassata per non lasciar trasparire tutta l’interna tensione, Robert Pattinson si lascia mascherare dietro un barbone e un paio di occhialini che segnano un’ulteriore tappa verso la garantita, matura definizione di uno dei futuri maggiori attori di Hollywood. Nel ruolo della moglie fedele e comprensiva, colonna indispensabile alla cieca fede di Fawcett nella sua missione impossibile, c’è una Sienna Miller di trepida e statuaria bellezza, agitata da fremiti muliebri come certi ritratti pittorici di William Hunt o Ford Madox Brown (Gray è autore coltissimo, ed è obbligatorio riconoscergli tanta cura negli aspetti visivi ed estetici del film). Ma una menzione tutta speciale merita il giovanissimo Tom Holland, in attesa di vederlo volteggiare abbigliato della tuta rossoblu dello Spiderman di imminente uscita, qui nel bel ruolo del figlio prima conosciuto in ritardo, poi trascurato, e infine recuperato grazie alla passione di un padre capace di risvegliare in lui un unisono di sentimenti che nel finale del film acquista, come si diceva, statura di miracoloso e inatteso riscatto: sorpendente è la maturità espressiva del suo volto tutt’altro che bello, sagomato anzi di un’inquietudine britteniana, che ci autorizza ad aspettarci da qui all’eternità prove di interprete di sensazionale qualità. Ed è bello e giusto chiudere con una nota più che positiva queste righe purtroppo severe su un film piuttosto fallimentare, che tuttavia non compromette il rispetto e la stima nei confronti di uno dei maggiori giovani cineasti in attività.


CAST & CREDITS

(The Lost City of Z.); Regia: James Gray; sceneggiatura: James Gray; fotografia: Darius Khondji; montaggio: John Axelrad, Lee Haugen; musica: Christopher Spelman; interpreti: Charlie Hunnam, Robert Pattinson, Sienna Miller, Tom Holland, Angus MacFadyen; produzione: Plan B Entertainment, Keep Your Head, MICA Entertainment, MadRiver Pictures, Sierra/Affinity; distribuzione: Eagle Pictures, Leone Film Group; origine: USA, 2016; durata: 140’


Enregistrer au format PDF