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Clint Eastwood - Sotto il segno della violenza

Pubblicato il 18 marzo 2011 da Donato Guida


Clint Eastwood - Sotto il segno della violenza

Il 1964 è sicuramente l’anno di nascita di uno dei più grandi miti western che la storia del cinema ricordi: gli spettatori riempiono le sale per assistere al film Per un pugno di dollaro, opera con la quale il romano Sergio Leone apre la strada allo spaghetti-western, uno dei generi cinematografici più famosi al mondo. Al di là della bravura registica dell’autore (sulla quale, oramai, qualsiasi elogio sembrerebbe futile e ripetitivo), la grandezza dell’opera va ricercata anche nella grande interpretazione del suo protagonista: quell’”Uomo senza nome” che, ammazzando Ramòn Rojo, riporta la calma e la giustizia a San Miguel e, successivamente, va via verso il nulla, da dove era arrivato. Il trentaquattrenne Clint Eastwood – lineamenti scavati nella pietra e occhi impenetrabili che fanno da contorno a quell’espressione glaciale tanto amata dagli spettatori cinematografici – dà vita ad un personaggio unico e inimitabile, capace di rendere ancora più affascinante l’opera di Leone – primo capitolo di una delle trilogie più famose, quella “del dollaro”, comprendente i successivi Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966).
È trascorso quasi mezzo secolo dal “reale” battesimo cinematografico dell’impermeabile attore californiano e in pochi, nel vedere quel ragazzone americano – la cui espressione restava sempre la stessa per l’intera durata del film (nonché dell’intera trilogia) –, avrebbero pensato che sarebbe diventato uno dei più apprezzati attori e registi che il mondo avesse mai conosciuto.
Nato a San Francisco nel 1930, madre casalinga e padre operaio, prima di approdare al cinema Eastwood si arruola come soldato nella United States Army ma, successivamente convintosi che la carriera militare non gli si addice, prova svariati lavori, tra cui bagnino, camionista, pianista e trombettista jazz. Nel 1954 firma un contratto con la Universal e s’impegna, come attore, nella realizzazione di alcuni b-movie horror; successivamente la sua carriera ha una svolta improvvisa: accetta d’interpretare il ruolo del cowboy Rowdy Yates, protagonista della serie tv Rawhide.
Forse però, se non fosse stato per Sergio Leone, il nome di Eastwood sarebbe rimasto per sempre legato esclusivamente a questa serie televisiva; o forse, visto il forte carisma dell’attore-regista americano, egli sarebbe riuscito, in ogni modo, ad uscire dall’anonimato e divenire l’importante personaggio che oggi è. Fatto sta che Leone non solo gli permette d’imparare come realmente funzioni il lavoro di regista – insegnamenti che, l’allora giovane Eastwood, cattura e conserva avidamente –, ma gli permette anche di scolpire il suo nome nella grande storia del cinema: fa di lui un personaggio memorabile, quell’uomo senza nome di non poco superiore a quell’ispettore Callaghan che, grazie a Don Siegel, risulterà tanto pungente e accattivante quanto il personaggio western di Leone.
Sergio Leone e Don Siegel sono i due autori – il primo, vero e proprio padre cinematografico, il secondo, vero e proprio mentore – ai quali Clint Eastwood deve, non solo la sua fama d’attore, ma anche la sua bravura registica. L’autore californiano riesce a rielaborare, in ogni film che lo vede impegnato non solo come attore, ma anche come regista, la lezione dei due, per ridarla, successivamente, in maniera del tutto personale. Al di là della tecnica registica prettamente leoniana – ferma e solida – e delle battute taglienti e graffianti che utilizzano i duri personaggi che soventemente interpreta – figli del siegeliano Callaghan – ciò che Eastwood ruba ai due autori è quelle realistica visione violenta del mondo che circonda i suoi personaggi; una violenza che raggiungerà il culmine nel primo acclamato film dell’autore Gli spietati (1992) – film, non a caso, “dedicato a Sergio e Don”, così come si legge nei titoli di coda. Tra i quattro premi Oscar vinti, spiccano i due per miglior film e miglior regia. Partendo da quest’opera, per arrivare all’ultimo film realizzato da Eastwood – Gran Torino (2009) – attraversando realizzazioni quali Mystic river (2003), Million dollar baby (2005) e Changeling (2008), spicca, nella maggior parte delle sue opere, una forte idea di violenza rapportata al mondo che circonda, non solo i suoi personaggi, ma lo stesso regista; una violenza sempre filtrata dallo sguardo di un uomo che, nonostante l’aspetto arido, nasconde in realtà una grande sensibilità.
Sarebbe alquanto improponibile provare a realizzare una “sintesi della violenza” basandosi sull’intera filmografia dell’autore – più di una trentina le opere realizzate; molto più facile e significativo, invece, provarci sulla base di quelle opere – partendo da Mystic river per giungere a Gran Torino – che, a partire dall’inizio del nuovo secolo, lo hanno riportato sulla scia dei grandi autori americani. La disperazione di un padre che, dopo aver perso la figlia, uccisa brutalmente dallo sconsiderato “gioco” di due ragazzini, cerca di farsi giustizia da solo, non confidando nell’aiuto della polizia; il dolore di un intristito allenatore di boxe che, dopo aver cresciuto la sua allieva come una figlia, è costretto a spegnere la sua vita per non vederla più soffrire in un letto d’ospedale; il coraggio di una giovane madre costretta a combattere contro l’intera forza di polizia, rea di non aver fatto nulla per cercare il suo bambino, scomparso in circostanze misteriose e che, addirittura, impone alla stessa donna di accettare un figlio non suo pur di far elevare, agli occhi della stampa, la bravura delle stesse forze dell’ordine; la sensibilità di un vecchio e deluso reduce della guerra di Corea che, pur di difendere i nuovi amici e vicini asiatici dalla brutalità dei loro stessi connazionali, decide di farsi ammazzare, così da pagare per le sue colpe militaresche.
La violenza nei film di Eastwood non è solo relegata ai personaggi, ma è una brutalità che aleggia intorno all’opera stessa e che fa parte della stessa condizione dell’uomo. Una violenza che ne crea altra e che porta a un consequenziale incattivimento.
La visione di Eastwood è realistica, nell’osservazione di qualsiasi angolazione del mondo. La violenza che ne scaturisce è frutto di un inasprimento dello stesso individuo nei confronti dell’altro: cioè che viene fuori dalle opere dell’autore californiano è che, col passare del tempo, la brutalità ha preso il sopravvento sulle buone intenzioni; a questo fa eco il carattere emotivo di un uomo che, nel presentare la cattiveria sullo schermo, la filtra attraverso i suoi occhi sensibili ma, allo stesso tempo, graffianti. Eastwood non è un moralizzatore, non esalta né condanna la brutalità moderna: la mostra così com’è, tracciando nell’animo dello spettatore un sentiero di angoscia, rabbia e vergogna.
Quasi mezzo secolo è trascorso dalla comparsa sullo schermo di quell’uomo senza nome che affascinava gli spettatori, impaurendoli nel momento in cui essi immaginavano d’incontrarlo sul loro cammino; quasi cinquant’anni che hanno avuto il merito di forgiare il carattere di Eastwood, sensibile e brutale al contempo, e anche di affinare, oltre la sua tecnica registica, il suo sguardo sul mondo: uno sguardo impenetrabile che osserva la violenza degli uomini e la sfida, battendola quasi sempre.
E, finalmente, tolto il poncho texano, sotto il quale nascondeva la fondina da poliziotto, l’affascinante settantanovenne puo’ mostrarsi per ciò che è realmente: uomo fiero e onesto che ama gli uomini, lasciandosi però un margine di diffidenza, sempre in attesa che nuova violenza possa scoppiare, così da combatterla a suon di freddure di sguardi e battute taglienti.


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