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COLLATERAL

Pubblicato il 22 ottobre 2004 da Alessandro Borri


COLLATERAL

Per esplorare la struttura segreta dello spazio, niente di meglio delle tenebre. Ce lo hanno insegnato ultimamente due lunghe, memorabili maratone notturne come quelle di PTU (Johnnie To) e Collateral (Michael Mann). Notti alla Giordano Bruno, perse nella solitudine dell’universo e dense di coincidenze astrali; di strade da prendere o da perdere nella psicografia urbana di Hong Kong e Los Angeles. Dove la concentrazione e il progressivo svuotamento dei segni favoriscono l’atto del contemplare, veicolo privilegiato per trasfigurare dalla materia allo spirito. To, Mann: i più grandi, al momento. Appunto. Mann, in particolare, che stavolta porta la sua poetica della sospensione nel regno stesso dell’efficienza spettacolare, del movimento che non può arrestarsi pena la rottura dell’incantesimo cinetico. Prendendo in consegna per la prima volta una sceneggiatura totalmente non sua (come da anni annunciava di fare, sognando un improbabile futuro da director classico), il regista continua ad osare lo spreco di tempo e pellicola per cogliere in flagrante il disporsi in campo delle sue meteoriti di mondo, le impercettibili conseguenze di grandi eventi, le conseguenze enormi di piccole scelte. Lavoro di pensiero, lavoro per Michael Mann. Che, con il puntiglio smisurato dei visionari, si è messo in testa nientemeno che di riconsiderare in toto la percezione della realtà. Vi pare poco? Non solo: la sua concezione (pur se intrisa allo stesso modo di inesausta mania del controllo) è un perfetto contraltare a quella tassidermica di un Kubrick. Potremmo considerarla invece un’opzione gaddiana, per certi versi: le sue inquadrature pretendono sempre di togliere per aggiungere, di andare all’essenziale per moltiplicarlo, ed - esponenzialmente - esaurirlo, si tratti di un’officina di taxi o di un concerto jazz o di una sparatoria in discoteca. Un tale poeta della complessità trova in questo caso nella sintesi strutturale un formidabile detonatore. Perché può intanto disporre sul banco in bella vista i suoi temi privilegiati. In primis l’autobiografia creativa del confronto di perfezionismi: si tratti del minutaggio di percorsi nel traffico, dell’arredamento di una limousine o di omicidi in serie. E poi il mettere in griglia molteplici categorie dialettiche: routine/eccezionalità; neutralità/sensibilità; calcolo al secondo/adattamento all’ambiente e alla situazione/caso dilagante. Tutto contenuto nell’immagine evocata dell’improvvisante Miles Davis, nella “grace under pressure” con cui penetra lo spazio mentale della musica. Ma, con tutto ciò, ancora Non hai visto niente a Los Angeles. Non hai visto catturata nel flusso audiovisivo la mummia iridescente di un cristallo che si infrange (quello della città/mondo colta nel suo più intimo rivelarsi), né il suo tintinnio espandersi al limite dei sensi, nelle guglie di questa cattedrale digitale. Non hai visto la scintillografia di un’ombra disfarsi nell’aleph di un oceano di luci. Non hai visto l’azione perdere se stessa e continuamente ritrovarsi nell’ipnosi liquefatta di corpi che ballano, schermi oppiacei, traiettorie e punti di fuga. Verrebbe da parafrasare Donizetti e quel che disse a proposito del Guglielmo Tell di Rossini. Collateral l’ha girato Michael Mann, sì, ma ogni tanto vi ha messo mano Dio stesso.

[ottobre 2004]

Cast & credits:

Regia: Michael Mann; sceneggiatura: Stuart Bettie; fotografia: Paul Cameron, Dion Beebe; montaggio: Jim Miller, Paul Rubell; musica: James Newton Howard; interpreti: Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett Smith, Mark Ruffalo, Peter Berg, Bruce McGill, Javier Bardem; produzione: Paramount, Dreamworks; origine: Usa 2004; distribuzione: Uip; durata: 119’.

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