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Collezione Aututtno Inverno 2003

Pubblicato il 23 dicembre 2003 da Andrea di Mario


Collezione Aututtno Inverno 2003

Commentario unilaterale e semi-sadico della collezione autunno-inverno 2003 (e dei suoi critici)

Il racconto di Natale quest’anno non c’è. Anche se negli ultimi mesi si sono potute vedere ottime prove, non sembra che ci sia stato un film capace di coccolare la memoria nel guado natalizio. In questo periodo però inseguire l’acquirente di un lettore DVD - che si vendono a pile nei magazzini dell’elettronica, ultima frontiera economica del popolino, dopo il tabagismo, l’azzardo e il proibizionismo - fa riflettere un poco. Ebbene, questo anonimo sprecone di circa 70 euri, avrà il suo slim, lo installerà in un attimo & play, per entrare nel cinema di oggi. Già, le risorse del cinema sembrano essersi modificate e compresse in quell’enfasi che sono gli attimi di avvio del disco nella psicologia del nuovo spettatore dell’interno x. Si ammira il film principalmente per il suo essere spettacolarmente “copiato” come una superficie di ghiaccio dove poter pattinare per circa due ore, librarsi sulle lame di qualche omicidio o restare perfettamente immobili, grazie al tasto pause, per poter andare tranquillamente al bagno. Ecco dov’è finito il cinema: in questa benevola partecipazione al film, un robot perfettamente addomesticato. Essere catturati da una grande immagine non ha più ragione: grande o piccolo che sia lo schermo, è la qualità di riproduzione a dettare legge, e si sa, è una legge del tempo, realizzata nella preordinazione della scena. Una cosa sanno in comune karateti, autori, commercianti, produttori, distributori, videofonisti, cani: niente deve uscire dal quadro, tutto deve convergere verso il centro di esso come il pezzo raro in un bazar animato. Un “fuori campo” ormai si vede solo nel film di qualche studente: il movimento della macchina non rinvia più alla macchina stessa, al mezzo. Si passa direttamente dallo storyboard alla digitalizzazione. Tarantino, ad esempio, ci ha giocato sopra, lasciando che la lassa di animazione del suo film coprisse una durata insolitamente alta. Insomma, tutto questo prologo astruso per approfittare di dire che lo strillonatissimo Matrix Revolutions, il primo blockbuster fondatore di religioni, non è una “cagata pazzèsca” ma la più grande, apocrifamente biblica, tempesta di guano che sullo spettatore potesse piovere. E su questo insuccesso alziamo la bandiera della vittoria perché ha salvato tanti probabili cinefili in via di conversione, o peggio, di adesione mista e segreta. Pericolosa conseguenza dei tempi non è tanto la scarsità di opere in grado di restare memorabili, ma la flebile tensione immaginifica e morale degli spettatori, quest’ultimo forse unico motivo interessante, ma rapidamente letteraturizzato, di The dreamers. I sognatori. Tale mosceria emotiva, pare sia da attribuirsi anche alle capacità sentimentali dei giovani. Ma quando senti un ragazzo dire: “Non amerò mai più una donna in questo modo in tutta la mia vita [dopo aver appreso della sua morte]”, e poi sentirgli rispondere: “C’è a chi nemmeno capita”, ti rendi conto che a far pronunciare queste parole al ragazzo è un Padre, o meglio uno Zio, Clint, uncle Clint, il match winner di questa lista. Evviva, America amara, proletaria e letteraria, attori e attrici grandi e intelligenti (escludendo Penn), una storia che parte da un di dentro per costruirsi un di fuori scena dopo scena. Nel suo Mystic River, Eastwood passa dalla tragedia alla mestizia. Ecco, se c’è qualcosa che ha accomunato i film di questa prima metà d’anno forse è proprio lei, la signorina pallida. È mesto Zatoichi, perché, come ha dovuto ricordare a tutti Kitano, il suo personaggio non è un salvatore ma un altro violento in mezzo ai più violenti, che porta solamente a una moltiplicazione che azzera. È mesto il basso mimetico di Dogville (il finale è tragico ma la breve apparizione del cane, mesta), perché quella che vorrebbe essere una favola nera a uso e consumo del pubblico femminil-borghese segretamente sedotto dai padri è in verità il tentativo fallito di metaforizzare il destino di un allenatore di calcio. Acquistato da una potente società, gli permetterà di troncare la carriera dei suoi vecchi riottosi calciatori. Infatti, per garantire la riuscita del film, von Trier (che in Danimarca chiamano phäracul?ø) ha chiamato due campioni veri a rendere più veridico il suo racconto, James Caan e Ben Gazzarra, come in Fuga per la vittoria Houston aveva chiamato Ardilez e Pelè. Brecht? balle! Sono interessanti assai i titoli di coda: guarda guarda quanti eurini di quante agenzie culturali europee ha racimolato Lars, in Danimarca: un genio! Ogni volta che passa questo film si dovrebbe dedicare un minuto di raccoglimento a Derek Jarman, please. È mesto Elephant, per la sua bellezza calma e ipnotica. Lo è anche l’esercizio di variatio (dopo Bowling for Colombine) sul tema dell’assurda strage nella high school texana. Ma dopo così tanto sfarzo visivo, non si venga a dire che i giovani assassini nati seguivano il dettato di Adolfo Hitler dalla tv. Se ci avessero fatto vedere che gli ordini di morte li mandavano dei venusiani captati con dei walkie-talkie il film avrebbe avuto forse maggiore coerenza. Attendiamo il nuovo Spielberg per farci raccontare cose del genere. È mesto lo spettatore de Il ritorno quando si accorge che quel pinocchietto peticelloso, Vladimir Garin, l’unico veramente nella parte, è morto annegato, a sedici anni, prima ancora che il film uscisse. Il film-messa dell’esordiente russo (sì, ci sono i fuori campo) ha vinto Venezia. Con merito. Ma fra vent’anni sarà ricordato il suo concorrente Buongiorno, notte, non per una nuova ricorrenza dell’affaire Moro ma per aver segnato la strada di oltrepassamento dell’immagine mediante l’uso “tridimensionale” della colonna sonora. Una certa riviviscenza del cinema autoriale (in verità percentuale minima della democrazia proporzionale che unicamente sopravvive tra i germanici gestori di sala) è affidata anche a un altro film: Lost in traslation. Perso nella traduzione di Sofia Coppola. Il suo nome è inversamente proporzionale ai titoli conquistati da Rossi padre e Rossi figlio. Campione quest’ultimo, vicecampione il padre. Così, mezza regista la figlia, titano il padre. Qualche taglio sghembo, una lettura patinata del metropolitano, un insopportabile esistenzialismo a la page. Roba da Un uomo, una donna versione global. Sembra mesto ma non lo è. Però tutti lo difendono, perché? Forse il mestiere del critico è ridotto a prescrizioni moralistiche nel separare le cose giuste da quelle sbagliate? Di segnalare il diverso? E segnaliamolo allora questo diverso vero che è Chinese Odyssey di Jeff Lau da Hong Kong, durato una settimana in sala. Caro anonimo spettatore evadi dall’interno x e sfangatela da solo. Esci, parcheggia, risciacquati il viso con Master & Commander e affronta il nuovo anno sperando che lo strabiliante giallo di Kill Bill. Volume One non annerisca nel suo seguito come il carbone che ti aspetta per l’Epifania.

[dicembre 2003]


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