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"Colophon" e "Occhi di marrone" di Iacopo Maccioni

Pubblicato il 6 dicembre 2020 da Alessandro Izzi


"Colophon" e "Occhi di marrone" di Iacopo Maccioni

Nel 2018, Occhi di marrone , intenso romanzo di Iacopo Maccioni, varcava le soglie del campo di concentramento di Terezín, nei pressi di Praga.
Non un campo qualsiasi, quindi, (per quanto aberrante possa essere un aggettivo come “qualsiasi” riferito alla specificità dei lager nazisti), ma un mondo a sé nella realtà frastagliata dell’universo concentrazionario. Piuttosto, un campo civetta. Il luogo in cui erano rinchiusi gli intellettuali e gli artisti, troppo noti al mondo per sparire così facilmente, senza destar sospetto, anche in tempi turbolenti come quelli di guerra. Una città modello, mai davvero regalata agli ebrei come, invece, si pretendeva nel film imposto alla regia di Kurt Gerron (il secondo tentativo, in verità, di falso documentario sul campo dopo un primo aborto che aveva il difetto di includere troppa verità nell’inquadratura).
Qui la mortalità è stata, per lungo tempo, più bassa che altrove. Qui un’orchestra faceva concerti e i bambini si esercitavano nei cori del Brundibar, spesso per lo spasso dei soldati tedeschi che, in qualche modo, dovevano pur ingannare il tempo. Qui c’era carta e qualche colore per i disegni dei più piccini che sono arrivati poi sino a noi, a raccontare di incubi a occhi aperti che è impossibile cancellare dalla memoria collettiva.
Qui la fantasia del romanziere aveva intessuto le vicende di alcuni personaggi emblematici. Qui c’era Tsvi, scampato, per il miracoloso gesto di pietà di un nazista poco convinto, a uno dei tanti convogli partenti da Terezín per Auschwitz (meta prediletta dell’ultimo viaggio). Qui c’era Dvora, fanciulla dagli occhi di marrone, scesa dal treno convinta di aver comprato casa lontana dalla guerra (inganno comune a molti ebrei abbienti cui venivano vendute proprietà inesistenti e che si pagavano persino il prezzo del biglietto). Qui c’era Rafael Schächter che preparava l’ultima esibizione dell’orchestra col Requiem di Verdi. Personaggio vero, quest’ultimo, come tanti che scorrono sotto l’occhio del lettore, a fianco ai tanti verosimili che nascono per meglio accompagnare il lettore.
Di fronte all’impossibilità a capire, alla catastrofe del Senso rappresentata dalla realtà del campo di concentramento, anche la penna dello scrittore deve vacillare. L’impresa è troppo alta. Primo Levi è distante, nella sua prosa scultorea che nasceva dall’ingombrante evidenza dell’esserci stato, lui, in un campo che, di tutti, era il peggiore. Come lavorare, invece, di fantasia? – sembra questa essere la domanda che guida la prosa di Maccioni. È la risposta è nello stile. L’unica possibile per un romanziere che non vuole limitarsi a raccontare storie.
Uno stile frantumato, in cui la prosa si riannoda continuamente su sé stessa, nel disperato ritorno al punto di partenza che, del tutto, riesca a spiegare almeno qualcosa. Sforzo inane e impossibile perché l’orrore, quello vero, è destinato a rimanere nello spazio delle righe bianche, perennemente inafferato. E così il fraseggio si riavvita continuamente intorno alla tentazione forte del silenzio, mentre la struttura del periodo tende a comporsi in unità minime, laddove la continua ripetizione del concetto sonda le infinite possibilità della lingua in un continuo ricorso a sinonimi che tentano la strada delle sfumature: perché il campo di concentramento non era questo, quello e quell’altro, ma qualcosa che fugge tra i termini, che si nasconde a ogni passo. Una realtà in cui il tentativo di “afferrare” naufraga in un’abbondanza lessicale che è solo apparente, perché sempre il linguaggio ne esce sconfitto, mentre il polisindeto, eletto a cifra stilistica onnipervasiva, mima la ricerca fallita di un amante che rincorre gli occhi dell’amata in mezzo a mille altri occhi: tutti ugualmente vertigine d’abisso tra non detto e non dicibile.

Nel 2020 Colophon riprende le fila della narrazione seguendo il destino del solo Tsvi, che si lascia alle spalle il campo di concentramento a bordo di una carrozza funebre che porta libri, invece che bare.
Immagine di partenza folgorante (giustamente celebrata nella bellissima copertina) che mischia, in ossimoro, le contraddizioni insistenti tra il non luogo che azzerava ogni coordinata culturale nell’annullamento di ogni umanità, con il nuovo inizio di un ritorno alla vita che usa il libro come mattone e pietra angolare, nel recupero dell’umanità attraverso le storie, le parole, della comunicazione negata dallo sterminio.
L’allontanamento in prospettiva del luogo dell’orrore rappresenta, per il personaggio, la possibilità di un vivere che deve riannodarsi a una riscoperta delle proprie radici e del proprio essere. L’orrore del campo di concentramento, lasciato indietro in un nuovo oscuro mito delle origini, è la conditio sine qua non per ogni ostinata rivendicazione del diritto a essere. Non più luogo (se non mentale) esso diventa Tempo di un ritorno che prende corpo proprio in quel finire degli anni ’60 che vedono al cinema il trionfo della Nouvelle Vague e, ancor più, dei film di Alain Resnais.
Così, mentre la prosa vira, ammantandosi dei fraseggi elaborati tipici del romanzo psicologico mitteleuropeo (trapuntato sui contorni di un registro linguistico raffinatissimo), è la struttura del romanzo a complicarsi in una frattura apparentemente insanabile tra le ragioni della fabula e quelle dell’intreccio. La difficoltà del personaggio a tornare alle proprie radici e a pacificarsi coi fantasmi del proprio passato (la lettera mai consegnata nelle mani di Dvora) si traduce in un tempo narrativo continuamente riavvolto, in una narrazione fitta di partenze e ritorni in cui la consolazione del finale, che riunisce le ragioni di entrambi i romanzi, trova la grazia dell’assenza di ogni forma di facile retorica, in una commozione che lascia gli occhi asciutti, perché smuove cose più profonde delle lacrime.
Frattanto nuovi personaggi arricchiscono l’ordito del narrare, alcuni, davvero memorabili, li trovi dove meno ti aspetteresti che fossero, come nel giovane Blaise che riesce, alla penna, troppo vero per finire relegato al ruolo di comparsa (ci si sente, nel disegno, probabilmente l’anima di educatore di Maccioni, uno che ha passato in affettuosa consuetudine anni a fianco di giovani studenti).
Colophon (il titolo è una dichiarazione d’intenti su cui si potrebbe parlare a lungo) così prende corpo tra due mondi, quello del passato dell’orrore concentrazionario che è incubo ritornante (il capitolo su Majdanek recupera anche in senso stilistico le preoccupazione di Occhi di marrone a segno che, nel romanzo, tutto torna, tutto si trasforma, nulla è mai abbandonato) e quello della contestazione giovanile che flirta con le incertezze della “nuova” contrapposizione tra capitalismo e comunismo: due nuovi totalitarismi, in fondo.
Eppure, Maccioni evita il peccato originale di tante narrative contemporanee che avvicinano i due periodi storici nel principio di un’ideale par condicio scivolosa, per cui un regime, in fondo, è uguale a un altro. Al contrario, Colophon è dimostrazione di come si possa restituire in poche pagine la specificità di una Storia che certo si ripete, ma in cui mai niente torna uguale.
Ma di qui in poi il discorso esulerebbe dai confini di questi due ottimi romanzi che aprono un baratro di fronte alla coscienza del lettore. A lui, e solo a lui, resta alla fine la scelta se rispecchiarsi o meno nell’abisso.


Autore: Iacopo Maccioni
Titolo: Colophon
Editore: Giovane Holden edizioni
Collana: Battitore Libero
Dati: 168 pagine, brossurato
Anno: 2020
Prezzo: 14,00 €, (anche in eBook)
Isbn: 978-88-3292-722-1
webinfo: Scheda libro sul sito dell’editore

Autore: Iacopo Maccioni
Titolo: Occhi di marrone
Editore: Giovane Holden edizioni
Collana: Battitore Libero
Dati: 168 pagine, brossurato
Anno: 2018
Prezzo: 15,00 €, (anche in eBook)
Isbn: 978-88-3292-127-4
webinfo: Scheda libro sul sito dell’editore


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