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Colpo d’occhio

Pubblicato il 22 marzo 2008 da Alessandro Izzi


Colpo d'occhio

Il mistero numinoso ed indicibile della creazione è il vero ed unico cuore pulsante della poesia di Colpo d’occhio, l’ultima, complessa fatica registica di Sergio Rubini a due anni di distanza dall’apprezzato La terra.
Non ci si lasci ingannare dalle apparenze del rispetto alla logica del thriller e del noir portata avanti per tutto il film, non ci si lasci sviare dalla presenza, nel racconto e sulla scena, di un vero e proprio delitto (che per esemplificazione estrema si consuma proprio nello spazio semiciclico di un maestoso teatro greco), perché il vero enigma che sta alla base del film non è affatto il classico “chi ha ucciso chi” o il più esistenzialistico “perché chi ha ucciso chi”, quanto piuttosto il più insolubile “come nasce l’Opera”, "come e dove l’intuizione riesce a prendere corpo e a farsi comunicazione, espressione di una visione e di un pensiero"?
Quello che ci inganna, sino alla fine del film, è il non arrivare a capire, se non quando è davvero troppo tardi, che la vera opera d’arte che vediamo nascere e crescere nel corso di tutta la pellicola, è, per l’appunto il delitto che in essa si consuma. Creazione e morte sono fusi all’interno di uno stesso gesto, sono voluti dalla stessa volontà e permeati dalla stessa urgenza che un po’ si basa sui calcoli dell’intelligenza e un po’ è guidata dai ciechi istinti della passione più profonda.
Colpo d’occhio è, in questo, il più classico dei gialli. Anche in esso, infatti, l’assassino finisce per essere, in barba a tutte le aspettative, il maggiordomo di turno (in una scena esemplare il mestiere del critico viene assimilato a quello del cameriere che si limita a servire un buon vino, ma non per questo può dirsi artefice del suo colore, della sua consistenza e del suo gusto), ma, come nel migliore dei gialli, veniamo ingannati proprio nel momento in cui abbiamo l’impressione di capire qualcosa. Sappiamo, infatti e fin dall’inizio, che il colpevole della morte di Scamarcio è Lulli, ma non ci accorgiamo che la vera “colpa” non è (né era mai stata per tutto i film) l’omicidio, ma l’omicidio elevato al rango di opera d’arte. Pensiamo, durante tutta la proiezione, che Lulli sia solo il classico critico un po’ dottorino incapace di “creare”, di essere artista e a stento ci accorgiamo, alla fine del film, che egli è stato, sempre e per tutto il tempo, il solo personaggio a potersi dire autenticamente tale. Perché è Lulli ad agire, nel corso dell’intera narrazione, come volontà suprema che modella le figure, che trae una Forma dall’informe e che definisce un senso laddove, apparentemente, un senso non c’è. Tutta la storia, tutto il gioco degli intrighi, tutto il susseguirsi dei colpi di scena, da questo punto di vista, è motivato dal solo bisogno di far sì che alla fine quel fiotto di sangue incontri quelle strisce di nastro adesivo a definire, una volta per tutte, un’immagine che è anche, per noi spettatori, un’idea ed un’emozione.
Avevamo pensato che il vero artista nel film fosse l’Adrian di Scamarcio. Avevamo pensato che le sue sculture fossero espressione di un genio irruente profondamente calato nel suo tempo ed in quel luogo (tra Puglia, Abruzzo e Roma). Ci aveva autorizzati a pensare questa cosa la stessa macchina da presa di Rubini che, sin dall’inizio, flirta con le sculture, le accarezza quasi fossero un indicibile oggetto del desiderio. E invece no! Il solo "colpevole" della colpa di essere artista è, più che di altri, di Lulli.
Ce l’aveva reso insospettabile essenzialmente la sua aria non tanto da critico, quanto, per dirla con Eliot, da propagandista della critica, da luminare universitario in un mondo dove l’università, per dirla questa volta con Fellini, uccide l’Arte nel preciso momento in cui la riduce a merce da museo.
In Lulli il “bla bla” della critica perde la sua funzione di ponte ideale tra opera e pubblico e diventa automagnificazione ed arma d’offesa. E Lulli uccide nello stesso modo in cui "scopre"un nuovo autore emergente: per interposta persona. Anzi per lui uccidere una persona o affossare la possibile reputazione di un’altra nel limbo dell’oblio delle tante persone che sono state incapaci di sfondare è, di fatto, la stessa identica cosa. La sua azione è multiforme e nascosta. Lulli si muove subdolamente, come le parole di un novello Jago che esercitano sugli altri un fascino malevolo e potente, ma che non sporcano mai le sue mani.
Al contrario di Adrian che costruisce dal vuoto per approdare al pieno, al contrario di Gloria che, quale ricettacolo di una nuova vita, è l’unica del terzetto a potersi dire vera creatrice, Lulli deve partire dal pieno per far vuoto intorno a sé. Il personaggio di Rubini assorbe le istanze creatrici degli altri due e le ribalta, le negativizza, le conduce verso un incessante desiderio di morte. Non è un caso che l’aborto e il fallimento della mostra di Scalia avvengano, nel film, nello stesso identico momento.
Anche per questo la funzione del personaggio femminile è molto più sfumata di quanto non paia a prima vista. La donna, nella sua capacità autenticamente generatrice è l’unico personaggio del film ad essere immerso senza contraddizioni nel flusso del tempo. Tanto lo scultore quanto il critico, infatti, vivono in disperata contraddizione con le istanze dei rispettivi passati. Lulli, anzi, non sembra avere una propria storia personale. È come se la sua esistenza cominci nel momento in cui diviene consapevole del tradimento e dà inizio ai suoi piani di vendetta. Scala, invece, un proprio passato ce l’ha, ma lo tradisce nel momento in cui accetta di firmare, rubandola, l’opera del suo amico appena scomparso. Solo Gloria, in tutto il film, ha il lusso di un vero e proprio flash-back, solo per lei il passato è una concreta realtà con cui instaurare un dialogo. È lei, quindi, a mantenere il contatto con la terra ed il tempo laddove i personaggi maschili si perdono nell’empireo delle idee e nel turbine vano delle parole e di un’arte troppo corrotta dal pensiero.
Colpo d’occhio così si conferma come opera diseguale, ma impressionantemente vitale. Un piccolo gioiello di regia costruito da un autore che sa pensare in grande, con una disperata sete di immagini che attingono da Hitchcock da De Palma, ma anche dal miglior cinema italiano di genere. Peccato allora che gli attori non riescano a star dietro alle ambizioni della macchina da presa. Scamarcio stenta a tenere la parte per quasi tutto il film, la Barale non capiamo bene che ci stia a fare in un prodotto pensato per il grande schermo mentre la Puccini che a modo suo un poco funziona, spesso appare un tantino monocorde. Il solo a lasciare il segno, quindi, è proprio Rubini che per tutto il film arpeggia da virtuoso su tutti i registri della sgradevolezza. E per tutto l’arco delle due ore che dura la proiezione non stona una volta che sia una.


CAST & CREDITS

(Colpo d’occhio); Regia: Sergio Rubini; sceneggiatura: Sergio Rubini, Angelo Pasquini, Carla Cavalluzzi; fotografia: Vladan Radovic; montaggio: Luca Gobbi; musica: Pino Donaggio; interpreti: Riccardo Scamarcio (Adrian), Vittoria Puccini (Gloria), Sergio Rubini (Lulli), Cristina Serafini (Dottoressa), Paola Barale (Sonia); produzione: Riccardo Tozzi, Marco Chimenz e Giovanni Stabilini per Cattleya, Rai Cinema; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia, 2008; durata: 118’


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