X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Convergence, una finestra su come cambia il cinema e l’audiovisivo

Pubblicato il 11 novembre 2014 da Antonio Napolitano


Convergence, una finestra su come cambia il cinema e l'audiovisivo

Interattività tra opera e spettatore è il concetto che probabilmente più di ogni altro è stato chiamato in causa durante i vari incontri di Convergence, un evento nell’evento sull’evoluzione del digitale che nei giorni del New York Film Festival ha ospitato autori, workshop, panel, proiezioni. L’introduzione all’evento ne riassume molto bene il senso: “L’avvento dell’era digitale ha creato un nuovo tipo di pubblico. Non contenti più di essere passivi consumatori di entertainment, i membri della new audience vogliono essere attivi, partecipi dei nuovi media. Le tradizionali linee di confine che dividono le arti, vengono adesso superate da autori innovativi che creano storie su piattaforme multiformi mescolando coraggiosamente l’originale con nuove forme artistiche”.

A questo punto il primo pensiero di chi è un minimo interessato al tema, potrebbe essere che è molto bello tutto ciò ma che in fondo non ci sia niente di nuovo. Quotidiani, riviste di settore, ma soprattutto magazine on-line e social network sono pieni di analisi, discussioni (pseudo)socio-filosofiche sui nuovi media e su come cambieremo a breve e lungo termine. Cioè si parla di una tematica nuova nel senso di moderno (o meglio contemporaneo) ma con il rischio che a furia di ripetere sempre gli stessi concetti, il futuro rischia di diventare subito passato e si auto seppellisca in partenza. In fondo su magazine e internet non si legge che approcci o tentativi e alla fine sembrano dei tribunali di processi all’intenzione. Ma è proprio con questa critica e con questo pregiudizio (legittimo) che si scopre la prima cosa interessante partecipando a Convergence. Non ci si perde in chiacchiere o in processi, ma le intenzioni diventano realtà. Per carità, a dire il vero un paio di incontri erano un po’ noiosi e a tratti banali, in piena sintonia con l’aria autoreferenziale e professorale dei nerd e narcisisti dei loro relatori. Ma va anche detto che tali relatori spesso non raggiungevano nemmeno i trenta anni (il che non li giustifica, ma fa comunque pensare che a quella età in Italia forse fai ancora lo stagista e difficilmente ti danno un microfono in mano). Salvo tali casi, durante Convergence lo spettatore poteva assistere direttamente ad opere e formule innovative ed essere chiamato a fare da cavia o a far da giudice di ciò che gli veniva mostrato. Altra cosa molto interessante è che per vedere questi film interattivi o come in alcuni casi venivano chiamati “film game”, non c’era bisogno di indossare occhialini tridimensionali o altre attrezzature ultratecnologiche. Anzi, di estensioni tecnologiche particolari non se ne sono viste. Semplicemente il tutto avveniva in un classico cinema seduti su delle semplici poltrone davanti ad un normalissimo schermo. Forse la cosa più innovativa è stata proprio questa, discutere dell’evoluzione delle tecnologie restando nel pieno dei contenuti e non essere giocoforza chiamati a misurarsi solo sulla tecnica fine a se stessa. In fondo Convergence non è una fiera o un expo in cui mostrare le nuove invenzioni ed evoluzioni dell’audiovisivo, ma è il contenitore in cui vedere, riflettere e condividere come queste sperimentazioni possono essere utilizzate. È il caso, per fare un esempio, della presentazione di Los Sures, bel documentario del 1984 girato da Diego Echeverria nel quartiere di Williamsburg a Brooklyn e che aveva presentato trenta anni prima proprio al New York Film Festival. Il quartiere era allora abitato dalla comunità dei portoricani e latinoamericani trasferitisi nella Grande Mela e il documentario racconta con taglio netto e senza orpelli la loro vita. Si entra nelle case di famiglie disagiate, si condivide con loro la loro povertà, i loro sogni, le loro battaglie, si seguono i personaggi anche quando si drogano e finiscono in carcere. Niente di più reale e quanto meno innovativo o tecnologico quindi. Ma la forza dell’innovazione presentata durante Convergence emerge nel lavoro di un giovane autore che dopo trenta anni riprende quello stesso documentario e lo frammenta in singole immagini come fossero tante fotografie, mettendole davanti a quegli stessi protagonisti trenta anni dopo. Ne viene fuori una sorta di flashback come in un film nel film dove i protagonisti vanno a ritroso e raccontano se stessi, mentre gli spettatori al contrario si ritrovano a vedere la realtà trasformata in un sequel trenta anni dopo. Altro elemento molto interessante di Convergence (e forse il più inaspettato) è che quasi tutte le opere non sono autoreferenziali o dei belli e puri esercizi di stile. C’è di fondo uno scopo sociale, che riguardi la comunità. Questa è infatti un’altra parola molto ricorrente. Comunità. Come se dopo anni in cui si è fatta la rincorsa all’individualismo e al puro business, adesso ci si accorge che qualcosa non ha funzionato bene, a cominciare dalla virtualità che ha sostituito la realtà. A tal proposito magistrale è stata la presentazione di un altro film interattivo, Fort McMoney, realizzato dall’ex giornalista francese di Libération, David Dufresne. Più che un film interattivo Fort McMoney è un documentary game. Ma cos’è un documentary game? Per essere sintetici e approssimativi, si può dire che è un film girato come un vero e proprio documentario sulla cittadina canadese di Fort McMurray, terza riserva al mondo per estrazione di petrolio. Un petrolio non convenzionale, ma molto costoso da estrarre e soprattutto altamente inquinante. Anche in questo caso, come in Los Sures, il documentario tocca temi delicati e, con taglio secco, segue i protagonisti nella loro quotidianità e nelle loro battaglie. Ma anche in questo caso, la classica visione assume un significato ulteriore a seconda della modalità di fruizione. Il documentario infatti è sul web ed è montato in modo che è lo spettatore a decidere quale filone della storia seguire. Alla fine del film lo spettatore si ritrova poi in una Fort McMurray ricostruita con le stesse modalità di Sim City e, in base a dei referendum che periodicamente vengono postati sul sito, le risposte e le scelte degli spettatori caratterizzano e sviluppano in maniera simulata quale sarà il futuro della cittadina canadese.

Realtà. Tradizione. Comunità. Sono queste le parole chiave da cui partire per affrontare seriamente il futuro. Elementi molto importanti anche per l’aspetto economico e politico della nostra società. Tre concetti che forse si erano persi nel mare magnum di Internet e dell’era digitale. Tre scogli su cui navigare e dove il naufragar potrebbe essere un po’ più dolce…


Enregistrer au format PDF