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Crowe, Hanson e la tradizione della Commedia Americana

Pubblicato il 12 dicembre 2005 da Adriano Ercolani


Crowe, Hanson e la tradizione della Commedia Americana

In un panorama cinematografico americano in cui l’evoluzione dei generi sta gradualmente portando al raggiungimento di un’estetica capace di ri-scrivere le regole del cosiddetto cinema “classico” - basta guardare l’opera recente di autori come Michael Mann, Clint Eastwood oppure Ron Howard nella sua forma più popolare - nel giro di poche settimane sono arrivate in sala due pellicole che in qualche modo si rifanno in maniera più “tradizionale” alla commedia del periodo d’oro hollywoodiano: le due opere in questione sono “Elizabethtown” (id., 2005) di Cameron Crowe e di “In Her Shoes” (id., 2005) di Curtis Hanson, scritta da Susannah Grant. L’analisi dei punti di contatto e delle differenze tra questi due lungometraggi esplicitano pienamente le modalità con cui Hanson e Crowe hanno inteso accostare i loro film alla forma codificata della “sophisticated comedy” americana; il primo, fondamentale momento di studio deve partire dal lavoro sulla scrittura cinematografica: sia lo script della Grant che quello di Crowe sono stati infatti composti rispettando in pieno le ormai leggendarie “regole del buon scrivere”, sintetizzato a partire dagli anni ’30 ad Hollywood e divenuto col passare del tempo una sorta di “dictat” a cui le Major hanno sottoposto gli sceneggiatori messi sotto contratto; i nodi fondamentali di questo approccio alla narrazione sono fondamentalmente tre: 1) Il rispetto e la scansione precisa di una struttura drammatica divisa in tre atti di durata variabile, ognuno contenente regole a snodi precisi della narrazione. 2) L’interazione costante tra una trama principale ben definite ed alcune sotto-trame in grado di vivificare il racconto. 3) La definizione e l’esplicazione precisa dei ruoli primari e secondari. Sia “Elizabethtown” che “In Her Shoes” sono esempi evidenti dell’uso degli elementi appena citati, rispettati in queste pellicole in maniera scrupolosa, almeno per quanto riguarda la strutturazione della sceneggiatura. All’interno di questo schema estremamente preciso però i film si muovono in maniera completamente opposta: se infatti il film di Hanson lavora espressamente sull’efficacia e sulla funzionalità del meccanismo di scrittura, arrivando attraverso di esso alla composizione di personaggi a tutto tondo, Cameron Crowe adopera invece tale “gabbia” per costruire un film-contenitore capace di mostrare in filigrana storie e riferimenti decisamente più personali: in “Elizabethtown” possiamo scorgere infatti la volontà del un cineasta di raccontare la propria vita adoperando un tessuto narrativo facilmente riconoscibile e sedimentato come quello della commedia americana. Crowe, che da sempre si professa allievo ossequioso del grande Billy Wilder, ha mutuato da cotanto “maestro” la capacità di inserire nelle sue storie riferimenti, sotto-trame, appigli che derivano direttamente dal proprio vissuto. Opere come “Scandalo internazionale” (A Foreign Affair, 1948) oppure “L’asso nella manica” (The Big Carnival - Ace in the Hole, 1951) sono perfette testimonianze del gusto di Wilder per l’inserto di tematiche più personali all’interno di macro-storie costruite con sapida precisione. Cameron Crowe sembra voler seguire questo parametro narrativo: già in “Quasi famosi” (Almost Famous, 2000) l’operazione composta in tal senso aveva portato ad un miracoloso equilibrio tra vicenda personale e sfruttamento degli stilemi del genere: “Elizabethtown” sotto questo punto di vista conferma la direzione di questo tentativo, portandola in un certo senso ad un livello di ulteriore complessità: il processo di amalgamazione stavolta risulta meno fluido, ma comunque non meno evidente. Il discorso sul film di Hanson, come anticipato, è completamente differente: il regista di “Wonder Boys” (id., 2000) sfrutta in pieno la funzionalità della sceneggiatura della Grant per costruirvi sopra un lungometraggio che, invece di voler arrivare ad essere opera personale attraverso l’autobiografismo contenuto nella storia, lo diventa per l’idea di messa in scena: “In Her Shoes” sfrutta in pieno tutti gli stilemi su cui è costruito per arrivare ad essere un film che basa la propria forza di penetrazione proprio sulla sua estrema riconoscibilità. Sia questa pellicola che il film di Crowe sono due commedie romantiche che, anche se con risultati eterogenei, basano sulla linearità del racconto la propria forza di impatto sullo spettatore: il fatto che fin dall’incipit della storia si possa capire quale sarà lo sviluppo di trama e personaggi significa che sono entrambi stati scritti secondo criteri divenuti ormai patrimonio imprescindibile dell’immaginario cinematografico, sedimentati da decenni di fruizione passati attraverso la storia del cinema americano. Guai a scambiare la funzionalità per scontatezza! L’atro fattore che rende questi due film in qualche maniera accostabili ai “classici” è l’idea di messa in scena, che in entrambi i casi tende ad essere “invisibile”- termine tanto caro all’analisi dei grandi cineasti degli anni ’30, ’40 e ’50. In questo senso il vocabolo sta ad intendere un tipo di regia che mai si sovrappone al racconto, ma lo asseconda attraverso la semplicità e l’equilibrio dell’immagine/cinema. In “Elizabethtown” e nel film di Hanson la macchina da presa non è mai invasiva, il mezzo adoperato per la narrazione - sia esso l’immagine o il montaggio di immagini - non si afferma mai con la propria essenza rispetto alla fruibilità del testo. Se vogliamo a tutti i costi trovare un intervento più esplicitamente referenziale in queste due opere, è senza dubbio nell’uso che Crowe fa della musica all’interno delle sue pellicole, e quindi anche di “Elizabethtown”: il suo passato di critico musicale, e la sua conseguente sterminata cultura in merito lo porta ad una selezione di brani del rock contemporaneo che, inserito poi come struttura trainante ed imprescindibile per le sue storie, svela ogni volta la sua “firma”. Dopo aver tentato di analizzare perché queste due opere sono accomunabili nel tentativo di riportarsi pedissequamente ad un modo di fare cinema ormai passato alla storia, un’ultima considerazione è d’obbligo: in un periodo in cui troppo spesso il cinema americano cerca di ovviare a problemi di struttura narrativa con un sovraccarico di bombardamenti di suono-immagine, poter gustare due pellicole che cercano un approccio equilibrato e disteso con lo spettatore, risulta quasi un piccolo anacronismo: non è forse un caso se, sia al botteghino statunitense che in quello internazionale, “In Her Shoes” ed “Elizabethtown” non hanno incontrato un eccessivo favore del pubblico. Possibile che ci si sia disabituati a vedere un cinema che vuole, prima di ogni altra cosa, raccontare delle storie?


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