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Demoni e Dee: Dentro i sogni della mente che sogna

Pubblicato il 12 febbraio 2007 da Fabrizio Croce


Demoni e Dee: Dentro i sogni della mente che sogna

Spesso appare veramente difficile, macchinoso, artificiale cercare di dare una lettura critica e distaccata del processo creativo che sta alla base di qualsiasi linguaggio espressivo, in particolar modo quando l’opera generata da questo processo sfugge ai canoni dell’interpretazione razionale, logica e scatena, suscita, smuove altre emozioni profonde e nascoste, lasciandoci spiazzati e costretti a prendere una posizione che sia radicale, di totale rifiuto o di completo abbandono.
David Lynch appartiene a quella categoria di sognatori dell’immagine che non chiedono di essere amati a tutti i costi, non cercano un dialogo, non offrono chiavi di lettura massificate che lo rendano immediatamente comprensibile, accettabile e ’amabile’ in un senso consolatorio e rassicurante, diremmo buonista nel rapporto di fruizione tra ciò che produce l’autore e ciò che recepisce lo spettatore. Non c’è passività di fronte alle immagini dentro lo sguardo di David Lynch, non ci viene imposto di comprenderle o di decifrarle, è come trovarsi davanti ad una porta chiusa e sta alla nostra curiosità, al nostro desiderio di perderci, di metterci in gioco, la possibilità di aprila o no, usufruendo, come strumento di questo percorso, del cinema, del suo rituale che riacquista tutta la magia e l’arcana, oscura potenza delle sua natura originaria; quella di mettere in contatto il mondo reale, materiale, carnale con l’indeterminatezza spaziale e temporale delle visioni degli uomini.
Per chi ama, e talvolta venera il signor Lynch, quella porta è stata spalancata nel 1977, anno in cui uscì la sua fulminate opera prima, Eraserhead - La mente che cancella e da allora cominciammo ad essere ’fulminati’ sul serio, come se un dito rimanesse incastrato nella presa della corrente e, completamente in trance, vivessimo quell’esperienza visiva fatta di teste che si trasformano in gomme da cancellare, feti che assomigliano a conigli dalla testa scuoiata, creature femminili dalle guance deturpate che abitano all’interno di un radiatore. Certo se, per dire, fossimo rimasti a guardare dal buco della serratura, se avessimo mantenuto una distanza di sicurezza non ci sarebbe stato il contagio e ciò a cui avremmo assistito sarebbe stato semplicemente un catalogo di immagini grottesche con venature horror, magari nobilitate da un raffinato stile cinematografico che rielabora le esperienze del surrealismo e dell’impressionismo in una nuova, limpida forma. Questo avrebbe completamente compromesso il rapporto di fascinazione e di comunicazione con le altre esperienze compiute da Lynch, riducendo lo spettatore a semplice ’ammiratore’ o, nel caso non si apprezzassero neanche le qualità stilistiche, ad osservatore, pure irritato, di un regista con il gusto del bizzarro, o dell’insolito. Chi invece, fosse per istinto o per una voglia di capire oltre la superficie dell’eccentrico, ha spalancato la porta, non è più potuto tornare al punto di partenza, è rimasto inghiottito da una serie di vertigini senza fine, cominciando a percepire lucidamente l’esistenza di intervalli tra un’esperienza lynchiana e l’altra, e l’ineluttabilità, l’impossibilità a non vivere quest’altra vita parallela di celluloide ogni volta che veniva aggiunta una tappa del viaggio, anche se risulta stonato appropiarsi della metafora del viaggio parlando di Lynch, visto che il viaggio prevede un inizio e una fine, un continuum in crescendo, una maturazione rispetto alla partenza e non è detto che tutto questo si verifichi quando si penetra nella membrana dell’universo di questo autore.

Come prima cosa, l’inizio del viaggio non deve coincidere assolutamente con la visione dell’opera d’esordio, ma può partire da qualsiasi punto, e non deve seguire una progressione cronologica che tenga conto dell’anno di realizzazione. Si scelga di entrare attraverso la visione di Strade perdute, ad esempio, e da quel punto si intersecheranno altre strade che condurranno in altri luoghi, alcuni riconoscibili e ripetuti, esattamente come ritornano le ossessioni, secondo un meccanismo mentale contaminato con il mondo ’basso’ delle emozioni primarie che danno la sensazione di avere già vissuto ciò che si sta vivendo nel qui ed ora, in particolare i momenti significativi che attraversano la vita di ogni uomo e di ogni donna: Fare l’amore, provare paura, nascere (o rinascere con un altro corpo e un altro cuore), morire. Nel cinema di Lynch questa idea di circolarità ritorna sui corpi degli attori-feticci e aumenta fino allo sfinimento la vertigine nello sguardo dello spettatore. Patricia Arquette e Balthar Getty che fanno l’amore in Strade perdute sono Laura Dern e Justin Theroux che fanno l’amore in Inland Empire che sono a loro volta Naomi Watts che si masturba in Mullholland Drive, che guarda il soffitto sfocato dalla passione e dalla disperazione. E la disperazione suicida della Watts conduce direttamente allo sguardo senza speranza e senza via d’uscita di Isabella Rossellini nel falso happy end di Velluto blu, o alla morte allucinata di Laura Palmer nel film pre-quel di Twin Peaks. Saltando temporalmente tra uno sguardo e l’altro risulta così ovvio, perfino semplice, cercare negli occhi della Rossellini la risposta al destino e alla fine di Laura Palmer, esattamente come la trasformazione di Bill Pullman in Balthar Getty in Strade perdute, l’intervallo senza forma tra un’identità e l’altra riconduce a The Elephant Man, alla condizione di essere indefinibile, in mutamento, interrotto in un’epoca in bilico tra il sublime e l’orrorifico, l’ottocento, prima di tornare alla caotica, accelerata contemporaneità di Lost Higways, alla definizione dell’identità del volto contro la mostruosità di una corrotta vita interiore (mentre l’uomo-elefante John Merrick aveva una coscienza assoluta di chi era!).
Affermare che tutto questo ’ragionamento’ è frutto di una analisi a freddo, serve a mascherare e a razionalizzare quella che non è un’intepretazione, ma un modo di sentire, di ascoltare, di trovare una sintonia con la vibrazione interna dell’immagine, del suo valore di suggestione che proietta fuori dalla limitata percezione dello schermo cinematografico o dell’alta definizione del supporto digitale una serie di squarci di colore, oppure le costruzioni tridimensionale che un computer è in grado di creare partendo dagli stimoli delle vibrazioni della musica. Lynch ha detto che il suo cinema è un pò come la musica jazz che con un ulteriore accostamento si avvicina al sesso, i cui segni sono presenti in tutto ciò che ci circonda, che fa parte del nosto modo di accogliere la realtà esterna, di farla nostra, di sentirla dentro di noi. Se non è il viaggio, allora il rapporto con il mondo altro di Lynch è un lungo e interminabile amplesso che travalica anche la questione del "genere" maschile o femminile, perchè tutto è sovrapposto, scomposto e riassemblato, contenuto e risolto in se stesso.
Il cinema di Lynch non solo ci possiede ma si fà possedere, l’aggressività del maschio e la generosità della femmina, i Nicholas Cage, Willem Dafoe, Justin Theroux che con la loro semplice presenza fisica rimandano all’irruenza, all’ottusa, cieca fame dell’oggetto del piacere e le Naomi Watts, le Laura Dern, le Isabella Rossellini che sfiancano questa irruenza, quest’aggressività con una potenza ancora maggiore, il mistero dell’eros. La scena di Bobby Perù\Dafoe che minaccia una paralizzata e scioccata Laura Dern\Lula viene spezzata dall’inquadratura del particolare della mano di Lula che si apre con uno scatto nervoso, come si fosse appena compiuto un amplesso. A quel punto, l’osceno Bobby Perù con la sua bocca da vampiro sfregiato non può che uscire di scena: Lula, come tutte le donne lynchiane, ha trasformato la bestialità dell’istinto maschile in piacere, sogno, ha stabilito la vibrazione giusta, ha eseguito il suo assolo Jazz, permettendoci di ascoltare attraverso gli occhi.
Il Demone in Lynch è sempre maschile, a cominciare dal Bob di Twin Peaks, mentre la definizione di Dea richiama anche il significato di sconsacrazione e di profanazione, l’ambiguità dell’ambiguità già presente nel reale. Tutte le domande e gli interrogativi che suscita la sua ultima ’opera’, Inland Empire, non portano da nessuna parte se si cerca di leggere il percorso di Lynch in una direzione di superamento o meno, di spartiacque o di ritorno alle origini rispetto alla produzione precedente, non c’è nessuna direzione da seguire, ma un’idea di scorticamento, di ulteriore penetrazione, di spogliamento dei codici narrativi (il noir, il romanzo pulp, il dramma adolescenziale) e di svelamento, attraverso la ridondanza visionaria, della vera intimità delle sue donne, del suo cinema. Se il titolo è solo suono, forse un piccolo vezzo nella scelta della parola Empire questa volta si può trovare, un significato di espansione, grandezza, nobiltà e degrado, ma anche attributo alla verità interiore di tutte le Lula del mondo.
Magari Inland Empire parte proprio da un’ulteriore sospensione, un fotogramma di una mano spalancata sul piacere e sull’orrore, che ha acceso il giradischi su una musica sconosciuta, segreta.


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