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Dovete Essere I Lupi - Uno Sguardo Sul Cinema E La Pedofilia

Pubblicato il 18 maggio 2005 da Fabrizio Croce


Dovete Essere I Lupi - Uno Sguardo Sul Cinema E La Pedofilia

Gli impulsi primari e barbarici del corpo, una volta liberati da un’immaginazione vincolata da privazioni e mancanze, possono diventare lo strumento radicale attraverso cui valicare la soglia che divide la rappresentazione ovattata, camuffata, anestetizzata della realtà per penetrare nel cuore pulsante di malattia e disagio di volti e voci infanti, storditi, alienati, paesaggi neutri e incontaminati, dove porre il marchio sconvolgente della vita interpretata nello sguardo. Probabilmente l’immaginario più ricco di privazioni e mancanze perché intrappolato nei cunicoli di una struttura sociale fortemente moralizzatrice e castratrice è quello della cultura nordamericana, che ha spesso cercato di colmare questa scomoda esigenza nell’immediatezza espressiva del cinema. E il cinema americano, quello altro, clandestino, contaminato rispetto alla versione ufficiale e standardizzata di Hollywood, ultimamente è stato popolato e quasi travolto dagli incubi e dai sogni dei portatori più sconosciuti, indecifrabili, spiazzanti nella tenerezza e nella crudezza, sconvolgenti nel loro essere semplicemente presenti, di quel vuoto senza fondo: i bambini colti fugacemente e inesorabilmente nella fase transitoria che porta verso la pubertà, la scoperta del sangue, del desiderio sessuale, dell’altro da sé a cui essere legati nella carne in continuo cambiamento e rinnovamento. Bambini divisi tra la fantasia incantevole della purezza interiore e la dura e implacabile rivelazione del mondo esteriore come il Brian e il Neil di Mysterious Skin o l’Aviva di Palindromes, in grado di appropriarsi dl tempo della mdp e di renderlo fluttuante e variante ai mutamenti rapidissimi, alle partenze e ai ritorni dei loro corpi, la maniera che possiedono per dare un peso specifico alla loro esistenza. In Mysterious Skin l’abuso sessuale perpetrato dall’allenatore di baseball nei confronti dei due ragazzi è la chiave d’accesso brutale e traumatica che gli stessi useranno, facendola scorrere sulla loro pelle misteriosa e incompiuta, per conoscere e conoscersi, celare e celarsi, manifestare i loro convulsi monologhi interiori nella fiabesca dolcezza dei colori pastello come nel degrado delle piaghe di un stile libero e selvaggio in grado di far convivere provocazioni anti moraliste, con il pedofilo non come reietto sociale, ma come catalizzatore delle inquietudini trasfigurate nel mito del rapimento alieno e perdute nell’oblio della memoria per Brian o come annunciatore della precoce e impietosa consapevolezza di una diversità fisica ed emotiva per Neil, e scelte estetiche eterogenee nella frammentazione dello spazio visivo e sonoro dell’Io e nella perfetta circolarità della narrazione. E se Gregg Araki immerge i nostri occhi abituati a vivere di inibizioni e proiezioni frustrate nel liquido amniotico dove tutto può generarsi senza negazioni o pudori, Todd Solondz trasforma il corpo di Aviva in un continuo work-in-progress senza linee definite o identità fisicamente riconoscibili, ma accompagnandoci nelle scoperta di chi muta non solo per una precisa posizione di spaesamento percettivo-Aviva è interpretata da diverse attrice tutte differenti per età, colore della pelle, corporatura-ma per esprimere anche in questo caso l’incapacità di adeguarsi alle forme rigide e respingenti della realtà degli adulti, che non ne accetta neanche la scelta di voler rimanere incinta a tutti i costi, perché vissuta fuori dalla logica logorante dell’atto riproduttivo e dentro la toccante, umanissima necessità di aprirsi al mondo seppur grottesco, violento, intollerante. Anche in questo caso il pedofilo non viene presentato come il mostro prodotto da una società perbenista ed ipocrita, si tratta di un essere umano fragile, debole, ricattato, strumentalizzato da una folle comunità di estremisti cattolici che vuole la morte di tutti i medici abortisti. Il cattivo, l’uomo nero, il mostro trascende, sia in Araki che in Solondz, l’aspetto della cronaca e delle descrizione dell’atto in sé e per sé, perché il cancro che divora le vittime, tanto indifese da non poter concepire qualcosa di così indeterminato nelle ambiguità e nei chiaroscuri di anime contagiate, sta nella frattura insanabile tra il desiderio irruento d’amore e di contatto sensuale e carnale dell’infanzia e la razionale, fredda, spietata risposta che un’umanità senza ascolto né comunicazione dà a questo desiderio, formando individui perduti, smemorati, paradossi di sé stessi. Fiona Apple, una cantautrice americana vittima di violenza infantile, in una sua canzone dice di sentirsi come una conchiglia defraudata dal mare della propria perla e riportata a riva come un guscio vuoto. Negli occhi di Brian e Neil come in quelli di Aviva vibra la luce malinconica che spinge oltre l’orizzonte della visione, nelle sfumature e nelle ombre dei contorni di figure che svaniscono sempre più lontane. Oltre la rabbia autodistruttiva prevale questo sentimento di rimpianto e, citando la stessa canzone della Apple, un desiderio di “calma sotto le onde del blu del proprio oblio”.

[maggio 2005]


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