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Eagle eye

Pubblicato il 20 febbraio 2009 da Alessandro Izzi
VOTO:


Eagle eye

Steven Spielberg e D. J. Caruso guardano Shia Labeouf e scoprono, tra le pieghe del suo sguardo chiaro, franco e diretto, le movenze di un novello Jimmy Stewart.
Il neodivo di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, si porta cucita addosso come un vanto quella classica dimensione da regoular guy che era, in fondo, il marchio di fabbrica di ogni scena dell’attore de La finestra sul cortile. Lo vedi sullo schermo del cinema e, da bravo spettatore, non puoi fare a meno di pensare che non sarebbe poi così stupefacente ritrovartelo come vicino di casa di un quartiere suburbano.
Te lo figuri bene anche in una casa borghese, con le pareti linde, i problemi di famiglia e il giardino sulla strada, con le aiuole fiorite in primavera e lo spazio per giocarci a baseball coi bambini che presto arriveranno. Non ci sta male, anche se lo sguardo volitivo di chi le sue opportunità se le costruisce a mani nude te lo fa sentire più un proletario che fatica col sudore sulla fronte. Del resto nel cinema di basso budget (quello dove sinora ha dimostrato di poter eccellere) è stato sia in Guida per riconoscere i tuoi santi che in Bobby: mai più su, comunque, della media borghesia.
Con questa faccia qui è, in fin dei conti, il perfetto prototipo dell’uomo che sapeva troppo e non se ne era accorto. È, per dirla tutta, la figura ideale del cittadino comune che finisce tra gli ingranaggi di una macchina molto più grande di lui.
Spielberg e Caruso l’hanno capito bene e ci hanno costruito sopra Eagle eye: un thriller ad alto tasso di inseguimenti e sparatorie, di effetti speciali e cascate di adrenalina in cui di tutto capita ad uno che, alla fine, è proprio come voi e come me.
Alla base di tutto c’è una vecchia idea che, leggenda narra, Spielberg aveva avuto, ma che era stato costretto ad accantonare perché giudicata dai più “troppo fantascientifica”: la storia di un mondo dominato (ma nessuno ancora se ne accorge) da un computer che tutto (pre)vede e tutto organizza e che ha come scopo primario tentare di prevenire gli attentati terroristici e le guerre planetarie. Come l’Hal 9000 di 2001: odissea nello spazio (cui assomiglia terribilmente grazie al suo monocolo che è più che un omaggio) il novello eroe cibernetico ha voce femminile e modi professionali e passa le sue giornate a spiare la vita delle persone dal loro concepimento alla loro dipertita, senza tirarsi indietro, nelle sue invasioni alla privacy, neanche di fronte ai momenti intimi e privati. Tra i suoi sottoposti umani ci troviamo anche un Bowman (quando citare è un’arte) che presto si accorgerà a sue spese che le mire del computer si son fatte terribili.
A sostanziare il film una consapevolezza politica di non poco conto su cui i commentatori che lo hanno già visto (si spera in lingua originale perché il doppiaggio grida vendetta al cielo) si sono soffermati poco: la guerra preventiva (quella portata avanti dagli States e che ben figura nel curioso incipit mediorientale della pellicola) è un paradosso insolubile come il cretese che grida al mondo che tutti i cretesi sono bugiardi. Per combattere le guerra disponendo solo delle armi della guerra bisogna aprire le ostilità ogni volta che c’è anche un semplice dubbio. Ergo per scansare una guerra bisogna necessariamente muoverne un’altra e la nazione che si picca di trovare la pace con la guerra preventiva dovrebbe puntare la pistola sulla sua stessa tempia e sparare.
Si vede subito come la base filosofico/metafisica che muove la premessa di Eagle eye sia la stessa che animava Minority report. È più che probabile, anzi, che, accantonato il progetto in tempi non sospetti, Spielberg ne abbia riversato le ossessioni nei film che ha realizzato nel frattempo. Sicché la deriva citazionistica alla Kubrick respira lo stesso anelito che era alla base di A. I. mentre la scena in cui Shia Labeouf sfugge alla polizia grazie alle soffiate del computer via telefonino ricorda terribilmente le scene analoghe in cui Tom Cruise scappava con la precog nel già citato Minority report. Il problema è che Caruso, bravo mestierante e discreto talento, non è visionario come il suo datore di lavoro. Sicché non spira in queste scene lo stesso soffio da tragedia antica che invece ci abbagliava nel vedere Samantha Morton con gli occhi persi in un futuro impossibile a cambiarsi.
Eagle eye non è un brutto film, ma funziona meglio nelle singole parti che non nell’insieme. Le scene action sono di invidiabile coerenza spaziale e hanno un ritmo che non ammette cedimento alcuno. Shia Labeouf (che continuiamo a preferire nel cinema Indie o, al più, fedele a Spielberg e, quindi, Indy) funziona bene quando è da solo e i suoi due gemelli tanto diversi vivono di giuste sfumature interpretative. Michelle Monaghan si aggrega al tutto col suo segmento narrativo più improbabile e faticoso. È lei la pietra al collo che non riesce ad integrarsi col resto della pellicola. Problema di sceneggiatura o problema di interprete: non si capisce bene.
Il resto è frutto di una confezione pulita ed onesta che non si capisce perché si sia tirata addosso gli strali di tanti commentatori nostrani. Il film, in fondo, sta nel solco del suo genere e ne subisce supinamente, ma neanche tanto, le regole. Forse bisognerebbe rivederlo con lo stesso metro con cui si rivalutano le goliardiate anni ’70 e i film di Giovannona Coscialunga. Al loro cospetto, Eagle eye rischia di volare alto come i capolavori che cita ad ogni piè sospinto.


CAST & CREDITS

(Eagle eye); Regia: D. J. Caruso; sceneggiatura: John Glenn, Travis Wright, Hillary Seitz, Dan McDermott; fotografia: Dariusz Wolski; montaggio: Jim Page; musica: Brian Tyler; interpreti: Shia LaBeouf (Jerry Shaw), Michelle Monaghan (Rachel Holloman), Rosario Dawson (Zoe Perez), Michael Chiklis (Segretario della difesa Callister), Anthony Mackie (Maggiore William Bowman), Ethan Embry (Agente Toby Grant), Billy Bob Thornton (Agente Thomas Morgan); produzione: DreamWorks SKG; distribuzione: UIP; origine: USA, 2008; durata: 118’; webinfo: Sito ufficiale


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