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Editoriale: La politica in immagine

Pubblicato il 12 febbraio 2006 da Alessandro Izzi


Editoriale: La politica in immagine

Per una rivista come la nostra, che fa dello studio dell’immagine e della sua proliferazione sui vari media (dal cinematografico al televisivo) il suo campo d’indagine privilegiato, tacere sul fenomeno Berlusconi e sulla campagna elettorale appena cominciata sarebbe davvero un controsenso.
È un dovere non solo come cittadini italiani presto chiamati al voto, ma anche come critici e teorici della comunicazione audiovisiva toccare, sia pur brevemente, un argomento sul quale la critica tout court (televisiva e non) sembra non voler sprecare più di tanto le proprie parole troppo preoccupata com’è a stilare uno sterile elenco delle apparizioni di questa o quella lista in questa o quella trasmissione televisiva.
Eppure il fenomeno mediatico cui abbiamo assistito in questi ultimi anni ha delle proporzioni così vaste e delle dimensioni così complesse e sfuggenti che questo silenzio, interrotto solo da interventi faziosi e spesso fuori tema, presto zittiti, lascia stupefatti.
Ma i motivi di questa generale incertezza nell’affrontare la questione non dipende probabilmente solo da motivazioni opportunistiche (che, comunque, permangono in un giornalismo come il nostro sempre più asservito al potere), ma anche dal fatto che la critica italiana, ancora da svecchiare su molte questioni necessarie del cinema contemporaneo, è ancora del tutto priva di strumenti idonei alla comprensione di certi aspetti della realtà televisiva italiana.
La critica attuale, quando si trova a dover affrontare la realtà fattuale dei vari palinsesti opera, infatti, con strumenti spesso spuntati, e, in mancanza di meglio, si auto relega al campo del mero pezzo di costume, dell’articolo di fondo che è sempre ad un passo dal pettegolezzo puro e semplice o di quell’ironia d’accatto che cerca di attaccare frontalmente un fenomeno la cui portata non è stata ancora del tutto decifrata.
Facile parlare dei trapianti di capelli del premier, facile attaccare il suo egocentrismo o le sue debolezze (celebri le battute sui suoi complessi inerenti la statura), ma questi discorsi, incentrati come sono solo sull’aspetto superficiale del lavoro mediatico portato avanti dal cavaliere, non incidono mai sulla realtà concreta del fenomeno. Viceversa sono, piuttosto, parte integrante della strategia pubblicitaria del premier perché non fanno altro che rilanciare nel piano mediatico quella stessa immagine che vorrebbero decostruire.
Nella logica astratta della realtà televisiva quello che conta è, infatti, apparire in ogni caso, far emergere, al di sopra delle altre, un’immagine capace di sfondare la bidimensionalità del tubo catodico e di imporsi alla nostra attenzione distratta. L’immagine veicolata dallo schermo televisivo è, in questo senso, generalmente una sorta di simulacro “vuoto” che può essere riempito a piacimento con qualsiasi tipo di contenuti che possono essere ribaltati e rigirati a seconda dell’occasione. È la dinamica del reality show in cui il corpo dell’attore (nel senso di colui che agisce nel piano dell’immagine), si svuota di ogni valore aggiunto e diventa un contenitore neutro. Il suo semplice apparire certifica la sua esistenza nel piano della realtà, ma la sua esistenza è fluttuante come la realtà dei pixels televisivi e può trasformarsi indefinitamente, anche, se necessario, ribaltarsi nel suo stesso contrario. Questa dimensione fluttuante fa gioco ad un meccanismo comunicativo che si basa sull’azzeramento del grado di consapevolezza storica dello spettatore. Il pubblico televisivo (come già in 1984 di Orwell) tende a dimenticare tutto, fuorché l’immagine stessa. E se a questa immagine vien fatto veicolare un contenuto e, tempo dopo, il contrario di quello stesso contenuto, non c’è nessuna contraddizioni in termini per lo spettatore.
Parlare male di un’immagine rientra, quindi, nel gioco di persistenza dell’immagine stessa, come starebbero a dimostrare le puntate di Amici di Maria De Filippi, dove gran parte del sadico piacere dello spettatore sta tutto nel parlare male dei concorrenti e, spesso, paradossalmente, è proprio l’immagine più antipatica ad essere portata avanti anche se è, allo stesso tempo, sempre l’immagine più rassicurante a vincere la competizione.
La campagna elettorale di Berlusconi è tutta fondata sul gioco di moltiplicazione speculare della sua stessa immagine. A livello strettamente contenutistico essa si basa sul ripetersi di vecchie promesse e sullo sbandieramento proprio davanti al naso stupefatto dell’elettore, dell’immagine evocata degli orrori del comunismo. L’Italia è, nella logica berlusconiana, un paese rosso che si appresta a muoversi verso una catastrofe immane qualora l’elettorato dovesse esautorarlo del proprio potere o non concedergli il 51% dei voti. Significativo che questa politica di apparizioni televisive abbia preso corpo dopo un lungo periodo di assenza reale dai palinsesti (quando il pubblico cominciava, non a dimenticare, ma a marginalizzare la sua immagine). Come significativo che questa strategia prenda il "la" da una magnificazione da santino votivo come quella operata nella trasmissione della Pivetti, dove l’immagine sempre sorridente e sicura del presidente, è stata letteralmente messa al centro di un’arena di contorni osannanti fatta da soubrette televisive, volti noti o figure immediatamente associate a valori come lo sport (il calcio di Sacchi) o la giustizia (la Rita Dalla Chiesa di Forum). In questo modo l’immagine, moltiplicata dai punti di vista degli osservatori assurge ad un "surplus" che la pone naturalmente al di sopra della massa e anche certi racconti di una personalità rampante ed agguerrita (altrove fastidiosi) assumono contorni simpatici, piacevoli e d’intrattenimento. La politica scende in secondo piano, la legalità diventa un optional e tutto finisce nella dorata superficie di uno spettacolo magistralmente condotto, sfarfallante e vacuo.
Fondando tutta la propria campagna elettorale sulla propria persona e sul generico orrore per i rossi comunisti (come per la politica americana è sempre necessario definire i contorni spaventosi e sfuggenti di un nemico spesso inesistente), il cavaliere ha, però, già sostanzialmente vinto la battaglia almeno sul piano della comunicazione.
La sinistra italiana, infatti, del tutto incapace ad esprimere per proprio conto un’immagine altrettanto vincente da contrapporre a quella del cavaliere ha di fronte a sé poche alternative.
O tentare lo scontro frontale attaccando direttamente l’immagine del cavaliere (sforzo infruttuoso e controproducente, come abbiamo visto). Oppure fondare la propria campagna elettorale su contenuti forti e reali accettando definitivamente la propria sostanziale inattualità nel mondo televisivo contemporaneo, ma ponendosi nel rango di una dignitosa e fattiva opposizione non sappiamo quanto numerosa. Ma la realtà drammatica è che la sinistra italiana non ha più (da molti anni ormai) né reali contenuti né fattiva progettualità.
Nell’invasione degli ultracorpi di questi anni, in cui i baccelloni sono alla fine i nostri stessi apparecchi TV, a vincere sono già stati i nostri simulacri.

[Febbraio 2006]


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