X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Editoriale: Send in the clowns

Pubblicato il 24 febbraio 2006 da Alessandro Izzi


Editoriale: Send in the clowns

Quel governo che teme il ridicolo non è in buona salute.
L’italiano medio ha sentito talmente tante volte questa massima profondissima che essa ha finito per perdere ben presto ogni possibile significato. È diventata come un motivetto da fischiettare che torna a galla ad ogni episodio di censura indebita, come un riflesso condizionato che non ha più nessun valore ulteriore né storico, né etico, né filosofico. Quando qualche tempo fa ci indignammo per la censura subita da Blob (uno dei tanti episodi di censura televisiva che costellano la nostra storia recente) era ancora vivo in noi il sentimento etico di essere in un paese libero che non può passare sopra queste cose. Il successivo episodio della censura a Raiot della Guzzanti recentemente raccontato in Viva Zapatero! ci ha colti già più preparati, più stanchi, più annoiati, più abituati a questo clima generale in cui non ci si scandalizza più di niente.
Si ha bell’agio a ripetere e ripetere che nei paesi dove c’è censura non può esserci democrazia, la cosa non importa più a nessuno. Si può ribadire ad ogni piè sospinto che House of freedom pone l’Italia al 77° posto della sua classifica sulla libertà di stampa (neanche la prima posizione tra i paesi considerati semiliberi), la cosa non sconvolge più nessuno.
Se si impedisce di fatto ai comici di espletare la loro funzione storica relegandoli ad un silenzio solo sporadicamente interrotto da qualche spettacolo teatrale magari stracolmo, la risposta sta in un’alzata di spalle e nella considerazione che, in fin dei conti, mancando i comici, ci sono pur sempre i politici a riempire la scena e a regalarci il buon umore con una battuta, un sorriso sornione e un programma elettorale che promette magari qualche altro milione di posti di lavoro.
Recentemente lo spettacolo di Beppe Grillo prima e quello di Paolo Rossi poi hanno registrato un’affluenza da record nella sale a dimostrazione che il pubblico italiano può ancora gradire uno spettacolo intelligente e anche politicamente impegnato. Ma nel clima complessivo della campagna elettorale, dove ha più peso la notizia che il sindaco di Milano non può accettare il Tapiro d’oro di Striscia la notizia perché la sua apparizione televisiva violerebbe le norme della par condicio (sottile messaggio all’elettorato sull’inutilità di una regolamentazione che arriva proprio dritta dritta da una rete Mediaset), la cosa è passata quasi del tutto inosservata.
Il comico deve fare solo il comico. I discorsi politici spettano solo al politico. Queste sono le frasi che liquidano spicciamente ogni possibile discussione sull’argomento. Massime che si oppongono a quella da cui eravamo partiti e, alla fine, vincono nell’agone della discussione perché apparentemente più sensate, più spicce, più immediate e semplici di una frase che presuppone che noi si sappia di buon governo e di senso del comico.
Certo si può rispondere all’affermazione che vede nel dovere ultimo ed unico del comico la risata con tutta una serie di dati alla mano. Si può obiettare che di comizi elettorali erano zeppe le commedie di Ariostofane (quelle stesse magari che non verranno studiate più se la Moratti scopre che esistono). Si può rispondere citando qualche passo polticamente impegnato di Moliere. Si può ricordare il ruolo di Figaro nell’evoluzione della coscienza di classe dell’occidente tutto. O si può ribadire che il ruolo del giullare è sempre stato quello di opporsi ai potenti e ad ogni forma di governo (qualsiasi fosse il suo colore) e che non può aver senso parlare di par condicio dei comici, come è assurdo pretendere che il comico sia ben educato ed esente da livore e rabbia perché è di queste contraddizioni che si nutre il buffone. Ma si opporrebbe allo slogan ben congegnato del governo tutta una messe di informazioni, di discorsi, di puntuali riferimenti storici che non potrebbero mai avere la stessa presa immediata di una frase come “Il comico deve fare solo il comico”.
In Palombella rossa Nanni Moretti scagliava un anatema ancora oggi attualissimo sull’uso improprio delle parole nella nostra comunicazione non solo quotidiana. Non saper parlare, non sapere gestire un vocabolario vasto e puntuale significa, di fatto, perdere ogni contatto con la realtà che ci circonda. Nella Bibbia, anche se forse il parallelo potrebbe non piacere al nostro Nanni nazionale, all’atto della creazione divina segue anche l’atto della nominazione delle cose. Dio, presa per mano la sua creatura, la conduce nel giardino dell’Eden e le chiede di dare un nome a tutte le cose create. Dare un nome equivale a possedere, a comprendere la realtà che ci circonda. Più povero è il nostro vocabolario più piccolo è il mondo nel quale ci muoviamo.
L’ideale dello slogan pubblicitario (e per conseguenza dello slogan elettorale) poteva, forse, un tempo, essere quello di riuscire a condensare in uno strettissimo giro di parole un significato vastissimo. Ora che viviamo per sempre smarriti nella giungla di sigle e nelle sincopi linguistiche dei telefonini, la sintesi di uno slogan è pensata solo per adeguarsi quando non a ridurre sempre più i confini della capacità di capire dell’acquirente come dell’elettore.
La strategia comunicativa messa in atto nella società della comunicazione di massa e di Internet è, quindi, non quella di ridurre le parole, ma quella di ridurre le coscienze attraverso l’uso e la ripetizione di un nucleo ben scelto di parole.
In una realtà dove ogni idea si riduce a parola (di qui il doppio terrore nei confronti del comico che sull’ambiguità delle parole ha sempre giocato) non c’è più posto neanche per l’indignazione. Resta solo un progressivo abituarsi al vuoto.

[febbraio 2006]


Enregistrer au format PDF