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Editoriale: Sparare o sperare?

Pubblicato il 15 marzo 2006 da Alessia Spagnoli


Editoriale: Sparare o sperare?

Altro filo rosso e stavolta rosso sangue, percorre (neanche troppo) sottilmente alcune importanti uscite cinematografiche recenti. Quattro autori in particolare, generalmente distanti in quanto a poetica e sensibilità, portano avanti una tematica di fondo comune che avvelena il mood delle loro ultime opere attraverso una sfiducia dilagante: non (sol)tanto nelle istituzioni, quanto - ed è qui lo scarto significativo - nel primo nucleo societario fondativo, quello familiare. Ciascuno dei quattro film riconduce lo sfascio dello stesso alla figura collante del padre: si può ormai affermare, senza possibilità di smentita, che la definitiva messa in crisi del ruolo paterno è l’autentico motivo conduttore di quest’ultima stagione cinematografica.
I cineasti summenzionati sono Spielberg, Allen, Cronenberg e l’“outsider” Costa-Gavras che con i loro ultimi lavori hanno disegnato universi semantici completamente intrisi di un pessimismo, se non inedito nella recente evoluzione della loro poetica, ancora più stringente.
L’identità minacciata è il vero leitmotiv delle vicende personali dei quattro protagonisti di Munich, Match Point, A History of Violence e Cacciatore di Teste: ma è a ben vedere proprio la consapevole abdicazione all’individualismo da parte loro il paradosso su cui poggiano i quattro racconti filmici. Esistenze minate alla base dalla presenza di ordigni di varia “estrazione” e che si tratti di un’altra etnia/religione, dei propri istinti primari (primordiali), di colleghi più “appetibili”, il succo rimane lo stesso: il confronto con l’altro che destabilizza e annichilisce. Per tre di questi pater familias è la comune appartenenza all’alta borghesia il dato di partenza che costringe a difendere a pistola tratta i privilegi acquisiti e un tenore di vita che, una volta assaporato, diventa impossibile dimenticare (una vera e propria droga, la più potente).
Così si decide di affermare il proprio diritto all’esistenza (o al lavoro, nella variante paradigmatica proposta da Costa-Gavras, in cui però si dichiara esplicitamente che “si è il proprio lavoro” e che “senza di esso, siamo niente”) imbracciando un fucile o una pistola, annientando quella parte di sé che si riconosce nell’altro, sopprimendolo e tacitando la propria coscienza.
Se le motivazioni risultano macroscopicamente evidenti, nessuno dei quattro autori pare incline a “spiegare” o ad approfondire le (re)azioni dei loro protagonisti, seguendo una rotta già tracciata esemplarmente dall’Elephant di Van Sant. Com’è possibile che quattro padri di famiglia agiscano in modo tanto sconsiderato? Da dove provengono le linee guida di simili comportamenti? L’ipotesi che sia l’agire altrettanto poco ponderato del presidente degli USA, faro della nazione (che si presenta addirittura come comandante in capo delle truppe di marines indossando la mimetica), non pare un’ipotesi troppo campata in aria. Già Michael Moore nel suo ultrapolemico documentario sulla proliferazione delle armi Bowling for Columbine, avanzava e sosteneva con decisione la tesi secondo la quale, più che l’esempio delle canzoni di Marylin Manson o dei videogiochi violenti, fosse quello del presidente degli Stati Uniti in persona (all’epoca Clinton) responsabile di una guerra sanguinosa, la concausa effettiva della strage al liceo di Columbine. Ma Bush, come Clinton è ancora “l’espressione di una transitorietà. Probabilmente non è nemmeno l’uomo più potente di questo Impero. Può darsi che ci sia già, al di sopra di lui, un gruppo di uomini che non abbiamo mai visto tutti insieme, ma di cui abbiamo potuto scorgere qualcuno, qualche volta, da qualche parte. Uomini che nessuno di noi ha mai eletto e il cui potere è così grande che è difficile perfino immaginarlo. Sono su un fantastico ponte di comando da cui si gode il miglior panorama della Terra, un panorama ineguagliabile. Da qui si può vedere (o credere di vedere) non solo il presente, ma anche una parte del futuro” (Giulietto Chiesa, La Guerra Infinita). Sulla tolda di una gigantesca portaerei, questa truppa di uomini invisibili sono gli effettivi detentori del potere più grande: quello di dichiarare guerra alle nazioni, senza dover fornire moventi, senza dover rendere conto a nessuno del loro operato. Chi sono questi uomini più potenti della Terra? “Si tratta di un gruppo non molto numeroso di padroni degli strumenti del comunicare, intesi nella loro più vasta accezione: informazione, entertainment, pubblicità. Oggi sono in grado di determinare, attraverso l’uso sinergico di tutte le risorse della Information-Communication Technology, ciò che deve consumare, mangiare, bere, come deve divertirsi, dove deve passare il tempo libero, come fare l’amore, come arredare le case (supposto che le abbia), cosa deve desiderare, sognare, pensare qualche miliardo di abitanti del pianeta”.
Quest’ultima considerazione, ancora di Chiesa, calza come un guanto all’impianto narrativo del film del regista greco, a ben guardare il più polemicamente “politico” dei quattro (in misura maggiore perfino rispetto a Munich), in cui si evidenzia il connubio inscindibile tra pubblicità e alienazione: uno degli innumerevoli cartelloni pubblicitari di cui è disseminato il suo film e che agiscono in maniera subliminale nella mente del protagonista (e della nostra) è quello di un orologio da polso che viene brandito nell’aria come fosse un arma. E’ la nuova morale della supersocietà globale, che non può permettersi di “risparmiare” nessuno (formula di Aleksandr Zinoviev).
Certo, si percepiscono diverse gradazioni di calore nelle quattro opere: il “non più” eroe di Spielberg i suoi rimorsi continua comunque a manifestarli (come nella tanto discussa scena di montaggio alternato tra coito e ricordi delle azioni sanguinose cui ha preso parte). La lucida insensatezza del disoccupato di Costa-Gavras, non può non indurre nello spettatore un moto di solidarietà, mentre l’assurda realtà che prosegue alla cieca la sua folle corsa, non fa che confermarlo, e noi con lui, nel suo insensato (?) progetto. Cronenberg, al solito, fa leva sullo spaesamento e ci introduce dapprima un protagonista onesto e tutto d’un pezzo, salvo poi piazzarci davanti agli occhi il suo doppio mostruoso. Ancora diverso il discorso per lo sgradevole protagonista di Woody Allen, ben lontano dal Raskol’nikov dostoevskijano cui dovrebbe apparentarsi, dato che è solo il prodotto più vuoto della società di massa: un involucro tanto affascinante esteriormente (e come tale “acquistato” dalla sua nuova famiglia che ne fa mostra durante i raduni mondani) e orribilmente vacuo dentro. E la fortuna nei finali dei quattro film, arride ai protagonisti in maniera inversamente proporzionale: ad un maggior tasso di umanità conservata, corrisponde un futuro tanto più minaccioso. Ciascuno dei film possiede il ritmo incalzante del teorema matematico, cui la ragione, da sola, non basta ad opporsi. Così, le argomentazioni (o la loro assenza), portate avanti da ognuna delle quattro, ficcanti sceneggiature che non perdono un colpo, è il caso di dirlo, non fanno una grinza. Nemmeno in Woody Allen il racconto si piega mai al sorriso. Il cambiamento di tono nella pellicola di quest’ultimo è un altro dato significativo (anche se si dirà, e a ragione, che il discorso si riallaccia con molti nodi a Crimini e Misfatti) ma lo spirito di fondo è qui ancora più caustico e corrosivo che nelle sue commedie. Costa-Gavras offre al pari di Allen mondi tirati a lucido con un umorismo al vetriolo e offerti allo sguardo del potenziale acquirente (o datore di lavoro).
Se Cronenberg si appoggia al cinema di genere, il noir stavolta invece dell’horror, il discorso (pro)segue contemporaneamente, come sempre nell’autore canadese sul doppio binario della riflessione sociologica: il protagonista ha tentato di allontanarsi dal suo passato oscuro, ma qui, polanskianamente, è il Male che torna a cercarlo senza che possa sfuggirgli barricandosi in casa o in un angolo di mondo. Anche nel cinema dell’autore canadese si è prodotto un cambiamento di forma, di sostanza: il discorso sul mostruoso portato avanti in tanti horror, pare ormai essere stato introiettato definitivamente nella sua poetica e non necessita più di essere reso visivamente esplicito attraverso l’uso di effetti ributtanti.
Tuttavia costituisce un dato ancora più “illuminante” e sorprendente che l’erede di Walt Disney abbia maturato una visione così oscura del presente (e, come sempre parlando di Spielberg, del futuro, dato che pur sempre di uno dei grandissimi autori della fantascienza si parla). Prefigurata da A.I., come se due eventi ravvicinati come la scomparsa di Kubrick (’99) e l’attentato alle Torri Gemelle (nell’anno kubrickiano 2001 cui rimanda pure il finale plumbeo e per una volta non attraversato dall’arcobaleno di Munich) avessero agito in lui in profondità, alterando sia sul piano formale che su quello contenutistico il suo registro stilistico. Neppure nelle cosiddette commedie (Prova a Prendermi, The Terminal) ci si liberava mai da quel senso di oppressione che gravitava sull’individuo e non gli forniva spazi di fuga, finendo col richiudersi su di essi come una gabbia: come l’epilogo oppressivo di Munich, in cui Spielberg precipita il mondo in un baratro di insensatezza da cui pare non esserci modo di risollevarsi.


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