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El Alamein

Pubblicato il 20 novembre 2002 da Alessandro Izzi


El Alamein

El Alamein è un nome tristemente scritto con caratteri di sangue sulle pagine della nostra storia recente. Un esempio tragico su dove possano portare gli errori di valutazione, i sentimenti di onnipotenza e il semplice egocentrismo di una nazione (l’Italia) e del proprio esercito. Già le sole cifre, calcolate sulla pelle delle persone, non possono non dare il capogiro: 25.000 morti tra le truppe e quasi 30.000 soldati (per lo più poveri ragazzi, come avviene, del resto, in qualsiasi guerra) deportati in vari campi di prigionia. Il sentimento dell’inanità e assurdità di tutta questa immane catastrofe lo si coglie da subito in una sequenza beffardamente grottesca: quella in cui arriva la camionetta del duce che, ancora preso da fantasie frenetiche di facili vittorie (quelle che il suo regime aveva sempre felicemente inneggiato), reca al suo interno non gli agognati viveri e l’acqua di cui le truppe avrebbero disperato bisogno, ma solo lucido da scarpe per la parata della vittoria finale che avrebbe dovuto essere guidata dal suo cavallo personale. Nei dettagli, Monteleone rivela tutta la sua voglia di riscrivere la Storia, di gettare una nuova luce su quei tragici momenti che anticiparono la fine del sogno imperialista del nostro governo e, soprattutto, di additare proprio nella facile retorica del regime fascista (che evidentemente, mandando i suoi uomini a morire, aveva immaginato l’Egitto come il paesaggio di cartapesta di un film pastroniano) la principale causa di una disfatta, e dei morti che ne sono derivati, che poteva essere evitata. Due fari antitetici ed opposti guidano il regista nella non facile composizione del suo affresco. Da una parte le dolenti note di quella sinfonia sulla Guerra e sull’Uomo che è La sottile linea rossa di Terrence Malick e dall’altra il sogno pedagogico e visionario dello Spielberg di Salvate il soldato Ryan. Dal primo Monteleone eredita una visione in filigrana dell’evento battaglia, fatta di momenti assurdamente ingiustificati (la morte improvvisa della guida del giovane protagonista appena arrivato sul campo di battaglia), di lunghe pause che sanno di sabbia e di paura, di ampie oasi meditative che non contraddicono i successivi momenti di concitazione e di guerra. Dal secondo eredita, invece, l’ampia spettacolarità della sequenza centrale, la visione di un evento battaglia che smarrisce ogni consolatorio punto di riferimento e finisce per trasformare la messa in immagine del mondo (sia pure quello assurdo della guerra) in un utopico punto di non ritorno della possibilità di dire o di comprendere. La battaglia diviene così un trionfo sinfonico di bagliori sinistri, una confusione di sangue, fango e movimenti inconsulti. Ma, il regista eredita anche, dalla pellicola spielberghiana, la volontà di ripercorrere i vari modi in cui il cinema aveva, fin lì, cercato di raccontare l’inenarrabile (anche se più che il Fuller spielberghiano, ad essere citato qui è piuttosto un John Ford intinto nelle pause straziate di Beckett). Di fronte a queste due anime fulgide e risplendenti, Monteleone si accascia, però, in una visione troppo parziale e contraddittoria: ricostruisce l’ambiente, ma non riesce, come Malick, a restituirci l’orrore della guerra nelle pupille dilatate ed incredule dei suoi soldati, restituisce l’orrore della battaglia, ma non arriva realmente al punto terminale etico e filosofico della messa in immagine spielberghiana. Troppo preso dai microdrammi dei suoi personaggi (in una vocazione quasi scoliana del racconto storico) costruisce una pellicola troppo oscillante tra tragedia collettiva e tragedia minimalista per riuscire sempre realmente convincente. Forse, su El Alamein, il regista aveva detto meglio in quel breve documentario che aveva presentato a Venezia nella sezione Nuovi Territori, proprio quest’anno e che doveva aver guidato, in molti punti, la realizzazione di questo film spettacolare che resta nella memoria più che altro per la sua lucida passione e per l’intento etico e l’onesta intellettuale che lo animano.

(El Alamein); regia: Enzo Monteleone; sceneggiatura: Enzo Monteleone; fotografia: Daniele Nannuzzi; montaggio: Cecilia Zanuso; interpreti: Piero Briguglia, Pierfrancesco Favino, Luciano Scarpa, Emilio Solfrizzi; produzione: Cattleya; origine: Italia 2002; distribuzione: Medusa

[novembre 2002]

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