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FEBBRE DA CAVALLO - LA MANDRAKATA

Pubblicato il 19 novembre 2002 da Alessandro Borri


FEBBRE DA CAVALLO - LA MANDRAKATA

Il mondo si divide in chi è fan di Febbre da cavallo e in chi non lo è. Troppo lunghe da spiegare le ragioni di un culto così radicato, inutile sezionare scene e battute ormai entrate nel mito, dalla filosofia tascabile di “e anche se te lo dicessi, che te lo dico a fà” all’ineffabile “che te placchi, c’è la staccionata”. Basti dire che l’incursione di Steno nel mondo delle truffe arzigogolate e appagate della propria fantasia barocca (che negli anni ’70 dilagò anche in Italia sulla scia di La stangata: basti pensare a gioielli come Bluff di Sergio Corbucci con Celentano, o Charleston di Marcello Fondato con Bud Spencer) non è una “commedia all’italiana sbrigativa con qualche battuta divertente”, come recita il Mereghetti, ma un rotolo di pellicola toccato dalla grazia. Che ora (finalmente?), dopo annunci, smentite, conferme e rinvii, ha il suo erede naturale. La mandrakata nasce principalmente come aggiornamento delle capacità istrioniche di Proietti/Mandrake, che troviamo all’inizio - ma dai! - mentre fa il centurione taroccato al Colosseo, dove in coppia col nuovo compagno di raggiri Laganà mette in scena un classico colpo a due in stile Totò-Nino Taranto. Tutto come una volta, allora? Piacerebbe crederlo, ma com’è facile immaginare Pendolino e Pokemon non riescono a scalzare dalla memoria Piripicchio o Can Can, e non basta sparare a palla l’immortale refrain di Bixio-Frizzi-Tempera per ricreare la magia (quanto al fatto che i personaggi conoscono misteriosamente la musica del film in cui sono inseriti e ci ballano sopra, è da considerare una raffinata gag metacinematografica o una sottolineatura fastidiosamente pletorica?). Per il resto, cos’è cambiato, 26 anni dopo? Tante le variazioni sul tema. Mandrake ha cambiato bar e compagna, cosicché sparisce - tra i suoi harem angelici - Catherine Spaak. Al posto di Mafalda Caruso arriva una Nancy Brilli spigliata e camaleontica, Andrea Ascolese provvede all’aggiornamento informatico della febbre da scommessa, mentre il bolso Laganà, con le sue archeologiche battute sul culo con la targa, non può minimamente rivaleggiare col sublime Patata (che spunta fuori dall’oltretomba a tre quarti di gara, anche se sulle prime è arduo riconoscere un Montesano gonfio come un otre). Il figlio di Manzotin è cresciuto ma si fa sempre fregare col gioco dell’ascensore. Quanto al Vanzina touch, c’è il solito lavoro sui dialetti (con Buccirosso a conferire la quota partenopea); i soliti riferimenti stantii all’attualità, da Maria De Filippi ai centri Sobrino; la solita sbracatezza da “buona la prima”. Insomma che bilancio si può tentare? Alcuni momenti sono pure azzeccati, come la parentesi a Cinecittà, dove Mandrake si esibisce in un prevedibile Ritorno di Padre Pio, o la scalcagnata parodia di un Amleto alla Carmelo Bene, di fronte al quale Proietti (ex attore beniano), si addormenta della grossa. I fan potranno anche apprezzare il “Cozzaro nero” o il tormentone degli “euri”, come il rigore filologico (la fotografia che ricalca fedelmente la sciattezza dell’originale), ma i ritmi comici di papà Steno sono un ricordo lontano, e - come nel caso analogo di Blues Brothers 2000 - in queste rimpatriate geriatriche si rischia sempre di strafare, moltiplicando temi e personaggi nella missione ahimè impossibile di inseguire la perfezione del prototipo. Che ve lo dico a fa?

[novembre 2002]

Cast & credits:

Regia: Carlo Vanzina; sceneggiatura: Enrico e Carlo Vanzina; fotografia: Claudio Zamarion; montaggio: Luca Montanari; musica: Bixio-Frizzi-Tempera; interpreti: Gigi Proietti, Nancy Brilli, Rodolfo Laganà, Andrea Ascolese, Carlo Buccirosso, Enrico Montesano; produzione: Adriano Ariè per Solaris International, International Video 80, Warner Bros.; origine: Italia 2002; durata: 105’; distribuzione: Warner Bros. Italia.

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