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FILM DEL MESE: IL SIGNORE DEGLI ANELLI, LE DUE TORRI (PERCHE’ SI)

Pubblicato il 19 gennaio 2003 da Alessandro Borri


FILM DEL MESE: IL SIGNORE DEGLI ANELLI, LE DUE TORRI (PERCHE' SI)

Nota per la lettura: perdonate se qualche eccesso di entusiasmo del recensore pregiudicherà la lucidità dell’esposizione, ma concedetecelo, una volta all’anno. Manca solo la terza parte. Ora, dato che trattando de Il signore degli anelli non si parla di tre film diversi, ma di un unico film diviso in tre parti, considerare a se Le due torri ha poco senso. Se si può riscontrare un’apparente evoluzione stilistica, essa è legata all’evoluzione delle vicende della compagnia, al suo addentrarsi sempre più nelle regioni del male, nei territori della guerra e della distruzione. E in queste circostanze le strategie di Jackson sono chiare e distribuite su più piani. Da una parte l’esplicitazione dei nodi teorici alla base della costruzione tolkeniana, la sua rilettura critica, diciamo. Ed ecco nelle parole di Saruman, raffinato statista delle tenebre, le articolazioni della natura politica del male: tecnica contro natura, industria contro agricoltura, armi da fuoco contro arma bianca, nonché la normatività protonazista contro la multiculturalità dell’alleanza (la stessa tematica si ritrova anche in Harry Potter e la camera dei segreti). Quanto all’occhio di Sauron, non a caso si tratta di un’antenna elettrica che dalla cima della torre di Barad-dûr capta le onde energetiche del male. Sull’altro versante, quello dell’organizzazione del materiale, com’era facile presumere Jackson ricorre al montaggio alternato per spezzettare e soprattutto far interagire i lunghi blocchi narrativi in cui Tolkien suddivide i percorsi divergenti dell’ormai frantumata compagnia dell’anello. E, dopo aver accumulato spaventose cariche di tensione, le scioglie in snodi lirici dove voice over e rapsodici montaggi paralleli si incaricano di sollecitare terremoti emotivi a catena. Soprattutto, impressiona in Jackson la sagacia nell’accogliere opzioni stilistiche che vanno dal turgore ejsensteniano della composizione alla barbara delicatezza kurosawaiana di certi inserti (i fiori sulla tomba di Theodred compianto dal padre), dalle ascendenze shakespeariane (Theoden come Re Lear, Frodo-Gollum come Prospero-Calibano) a quelle manniane (se ci fate caso, come L’ultimo dei Mohicani secondo Michael Mann, Le due torri è un poema sinfonico di tracce - Aragorn che ricostruisce la sorte di Merry e Pipino dalle loro impronte -, inseguimenti, amori - quella ragnatela di sguardi tra Aragorn e Eowyn... -, tuffi nel vuoto, ritirate e massacri); o anche nel gestire accortamente la dialettica delle distanze: tra dettaglio e infinito, miniature e masse digitali, tra immersione digrignante nel caos e onnipotenza suprema di una camera che può tutto, tra lo sguardo largo e avvolgente e l’invincibile attrazione per l’abisso, mirabilmente sintetizzati nella prima ripresa, che volteggia sulle montagne innevate prima di tuffarsi nelle profondità di Khazad-dûm. Lo stesso fatto che si decida di principiare il nuovo viaggio con un sogno, quello di Frodo sulla presunta morte di Gandalf, non è senza conseguenze. Perché man mano una ridda di fantasmi si addensa sul cammino, trasformando Le due torri in un coacervo di percezioni distorte, di epifanie della malvagità, di memorie della terra, di incantamenti, contatti telepatici, morbosità; le visioni serrano i viandanti dappresso, e pedinandoli “realisticamente” Jackson può sfrenare la sua fantasia benedetta sul versante più dark, e intanto seminare sulla via infiniti colpi di genio; citiamo qua e là: tutto Gollum, dall’apparizione memorabile allo sdoppiamento tra le reviviscenze hobbitiane di Smeagol e la schiavitù verso l’anello, fino al piano sequenza che segue il suo scisso monologo finale; o il drappo che vola via all’arrivo della compagnia a Edoras; o il modo indescrivibile in cui Legolas salta su un cavallo in corsa; o la lacrima di Vermilinguo al grido di guerra di Saruman; e - su, su, verso il sublime - l’incredibile scena ossianica della premonizione di Arwen sul proprio futuro da mortale. Evitiamo ulteriori commenti, dato che la nostra scorta di superlativi si sta esaurendo. Ci siamo capiti. Peter Jackson, come (in modi tutti diversi) il suo conterraneo Andrew Niccol, si è incaricato di esplorare le ultime frontiere del visibile con l’occhio vergine dilavato dalle correnti oceaniche. La sua cattedrale sta ergendosi imponente, con le vetrate intarsiate di delirio. È bello esserci.

[gennaio 2003]

Cast & credits:

Regia: Peter Jackson; sceneggiatura: Fran Wash, Philippa Boyens, Stephen Sinclair, Peter Jackson dal romanzo di J. R. R. Tolkien; fotografia: Andrew Lesnie; montaggio: Michael Horton, Jabez Olssen; musica: Howard Shore; scenografia: Grant Major; costumi: Ngila Dickson, Richard Taylor; trucchi speciali, creature, armature e miniature: Richard Taylor; supervisione effetti visivi: Jim Rygiel; interpreti: Elijah Wod, Ian McKellen, Liv Tyler, Viggo Mortensen, Sean Astin, Cate Blanchett, John Rhys-Davies, Bernard Hill, Cristopher Lee, Billy Boyd, Dominic Monaghan, Orlando Bloom, Hugo Weaving, Miranda Otto, David Wenham, Brad Dourif, Andy Serkis, Karl Urban, Craig Parker; produzione: New Line Cinema; origine: USA, Nuova Zelanda 2002; distribuzione: Medusa; durata: 179’.

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