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Fino qui tutto bene

Pubblicato il 19 marzo 2015 da Francesca Polici
VOTO:


Fino qui tutto bene

Si dice che se un gruppo di persone riesce a stare insieme per un certo tempo su una barca senza creare conflitti quello diventerà un gruppo unito e la loro amicizia durerà per sempre. C’è qualcosa di significativo nell’ultima scena di Fino a qui tutto bene, qualcosa di profondamente simbolico che certifica in maniera chiara come lo stare insieme sia una sorta di viatico per la felicità.
Roan Jonhson mette in scena una commedia dinamica e intelligente che è però anche una attenta fotografia di un generazione, quella che era una volta definita la x, diventata poi y ed ora persa in un cumulo di generalizzazioni e di luoghi comuni. Don Mclean scriveva in un verso della sua celebre canzone American pie ’...A generation lost in space...’, per definire una un’identità generazionale figlia del benessere e di un idilliaco stile di vita americano, che si trova, negli anni ’70, a far i conti con una presa di coscienza nazionale e con la perdita dell’innocenza.
In questo film siamo allora difronte a un quadro rappresentativo di una generazione, che è quella dei ragazzi non più ragazzi. Di giovani uomini chiusi e compressi in una dimensione economica, che non è in grado d’assorbirli e da una struttura formativa che non è più in grado di formarli. Bloccati in un limbo catatonico, incapaci di diventare pienamente adulti. La casa in cui sono coinquilini è l’altro grande simbolo, retaggio di una tardo adolescenza universitaria protrattasi inopinatamente nel tempo. La comitiva, il gruppo d’amici è il modo in cui questi ragazzi ’non ancora adulti’ affrontano la vita, dall’affitto alle relazioni, fino alle grandi decisioni, quelle che la vita te la cambiano, tutte effettuate assieme, mostrando allora tutta la debolezza e tutta la fragilità di una generazione non ancora cresciuta e tragicamente fuori tempo massimo. Dietro le battute sardoniche, l’amarezza del tempo passato e la nostalgia, si prefigura tutta l’instabilità e l’incertezza di un futuro opaco, e per lo più nero. Tutto questo emerge dal profondo del film, ed è qui la bravura di un regista, che è autore a tutto tondo di questo film, che fin dai titoli di testa, anche se ironicamente, mette in luce tutte le incertezze di ’questo esistere d’oggi’.
A questa si aggiunge una confezione di cinema ’indie’, montaggio celere, macchina a mano e battute calibrate per un complesso di attori che funziona e sa divertire. La dimensione low-buget da al film il taglio perfetto che deve avere, un film che fa leva su una scrittura fluida e leggera che dona libertà al film. La formazione dei cinque interpreti, tre maschi e due femmine, ricorda poi le strutture disomogenee, nei rapporti di sesso, dei film di John Hughes e ci piace pensare che c’è un po’ degli studenti di The Breakfast Club in questi ragazzi di Jonhson, che come primi si sentono maledettamente soli.
In fine per quanto forzatamente il titolo del film volge celere il nostro pensiero al celebre incipit del film L’Odio di Mathieu Kassovitz «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: "Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”». Il cui senso riporta ancora ad una modalità espressiva per la quale il sussistere è ancora più importante, o per lo meno rassicurante, di un finale scritto.


CAST & CREDITS

(Fino a qui tutto bene); Regia: Roan Johnson; sceneggiatura: Roan Johnson e Ottavia Madeddu; fotografia: Davide Manca; montaggio: Paolo Landolfi e Davide Vizzini; musica: I Gatti Mézzi; interpreti: Alessio Vassallo (Vincenzo), Paolo Cioni (Cioni), Silvia D’Amico (Ilaria), Guglielmo Favilla (Andrea), Melissa Bartolini (Francesca); produzione: Roan Johnson; distribuzione: Microcinema Distribuzione; origine: Italia, 2014; durata: 79’


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