X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



FLIPT 2016 - Cronaca dal mondo meno vero

Pubblicato il 6 luglio 2016 da Alessandro Izzi


FLIPT 2016 - Cronaca dal mondo meno vero

Si comincia, in genere, misurando una distanza.
A Venezia, tanto per dirne una, la distanza sta già tutta nel colore dell’accredito che ti leghi al collo.
Quel colore ti dice quale fila fare per andare in sala a vedere l’anteprima del film che gli altri vedranno domani. Ti dice anche la strada che puoi prendere per andare in sala stampa dove scriverai i tuoi articoli.
Una distanza chiara ancorché ambigua: non sei pubblico, ma neanche parte del sistema. Piuttosto a metà, in un limbo strano che ti permette di giudicare quel che vedi senza porti altri problemi se non quello dello scienziato che osserva il mondo dall’alto di un microscopio.

Al FLIPT le cose, invece, sono subito diverse. Niente nel sistema ti indica dove mettere i tuoi occhi ad osservare. Arrivi per essere semplice testimone, ma non hai un dove né ti viene imposto un quando. Fin dall’inizio, anzi, stai in mezzo a un tutto in continuo divenire che ti porta come una corrente dolce eppure invincibile.
Ho passato i primi giorni al Festival di Fara in Sabina cercando, come Rossellini, la giusta distanza a cui mettere la macchina da presa. Ma ogni tentativo andava inesorabilmente a vuoto. Ogni cantuccio era troppo fuori, ogni angolo da cui poter dire “io” si riempiva di neve fredda che toglieva calore e colore a ogni cosa.
Nel tentativo di far meglio, piuttosto che una distanza fissa, ho cominciato allora a muovermi intorno e dentro alle cose. Zoomando in e poi out per adeguarmi al movimento di questo mondo di pure emozioni.
Ma questa scelta, da un certo punto in poi, si è fatta dolorosa perché allontanarsi da quella magia che si stava producendo diventava un’inutile tortura.

Quella magia non era nelle cose fatte. Non era nei workshop del mattino e del primo pomeriggio. Né negli incontri che si allungavano come ombre fin oltre il calar del sole. Né, infine gli spettacoli proposti a fine giornata.
Quella magia non era nemmeno nelle persone che si incontravano. Non era negli attori che studiavano le tecniche né nei maestri che le insegnavano.
Piuttosto quella magia stava in mezzo a quelle cose.
Come un filo le attraversava in una puntura di spillo e le cuciva insieme in un disegno che riprendeva, nella diversità di ogni singolo momento, quello a concertate pezzette del costume di Arlecchino.
Quella magia era l’ascolto che a un certo punto si è messo in mezzo a tanti dire e ne ha fatto un coro che, pur cantando, non smetteva di sentire.

La meraviglia di questo FLIPT che ci si dice unico, nonostante le tante edizioni lasciate alle spalle a fare storia, non è quindi nelle cose fatte, ma nel respiro che le ha animate, nella sincerità che la ha guidate.
Il workshop di Eugenio Barba, ad esempio, è stato esempio splendido di pratica teatrale. Ci ha regalato il privilegio di essere ammessi nella bottega dell’artista che improvvisa con consumata abilità su materiale altrui. Eppure anche questo Evento sembra cosa piccola rispetto all’arazzo complessivo.
I lavori con gli studenti di Claudio De Maglio sulla Commedia dell’arte (momento brillante e pieno di proposte) di Keiin Yoshimura (così ricco di storia e tradizione) di Parvathy Baul (che ho perso per impegni precedenti e successivi) non sono stati che colonne a reggere una volta a pieno cielo.

Gli stessi spettacoli erano bellissimi. Nessuno di qualità men che alta, alcuni schegge mirabolanti di poesia. Pensati prevalentemente per attrici, hanno messo in campo interpretazioni di rilievo: da Sarah Gise che in The Amish project si carica del peso di sette personaggi e li rende tutti senza sbavature a Emily Rose Duea e Meredith Larson che intessono storie a metà tra oriente e occidente tenendo le redini di un copione raramente ispirato. Da Keiin Yoshimura che compone una meditazione dolente su Hiroshima a Nathalie Mentha che, sempre con Keiin, rende danza la storia triste di Neve.
Ho perso purtroppo, perché arrivato il giorno dopo l’inizio del festival lo spettacolo del Touchstone Theatre, ma dal racconto della loro pratica teatrale, della loro dedizione a un teatro civile, profondamente connesso alla comunità, capace di sognare un Prometeo contemporaneo dentro un’acciaieria o di dividere il pubblico in due parti per dare il senso di straniamento di due culture che si incontrano/scontrano so di essermi perso qualcosa di notevole.

Eppure tutto questo avrebbe avuto meno senso se non fosse stato messo come seme a germogliare nel terreno giusto di questo gruppo di studenti iraniani, statunitensi e italiani, splendidamente definiti nelle loro specificità culturali eppure così curiosi nell’incontro con l’altro.
È in fondo a loro che si deve la riuscita dell’intero Festival che già di suo ha l’ambizione di voler mettere pratiche teatrali in dialogo continuo. È alla loro energia, al loro bisogno di dirsi e al loro saper stare insieme che si deve l’aver trovato un Senso.
E da quel momento sono sembrate obsolete tutte le categorie con cui i media raffigurano il mondo. È sembrata assurda l’idea di quello che ci si passa come scontro di civiltà. È sembrato incerto ogni desiderio di confine.
Città invisibili ha chiuso il festival come regalo alla città di Fara e l’addio delicato si è riempito di sorrisi.
Ora non resta che la difficoltà di tornare indietro, al mondo meno vero. Con un seme, però, e un’utopia ancora dentro gli occhi.


Enregistrer au format PDF