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FLIPT 2016 - Neve

Pubblicato il 1 luglio 2016 da Alessandro Izzi


FLIPT 2016 - Neve

Storia d’amore tra un samurai giapponese e una funambola francese, Neve si presenta allo sguardo dello spettatore come una serie di contrapposizioni continuamente variate e rimodulate.

La prima e più evidente è quella culturale. A separare i due personaggi non c’è soltanto una presto superata barriera linguistica, ma soprattutto la distanza millenaria che separa due mondi tra loro distanti, due diverse percezioni del reale e due diversi modi di rispondere al bisogno di dirsi all’altro e, quindi, in fondo, anche a se stessi.
Da un punto di vista teatrale questa contrapposizione si esprime, più che nelle dichiarazioni della voce narrante che accompagna lo spettatore nella comprensione della storia, nel diverso lavoro sul corpo e sullo spazio compiuto dalle attrici (superbe entrambe).
Da una parte c’è, infatti, il samurai (interpretato da Keiin Yoshimura) che, come da tradizione del teatro orientale, definisce un percorso implosivo, in cui il gesto si fa contratto, ridotto all’essenziale e quasi scolpito nello spazio; dall’altra c’è invece l’estrema apertura del gesto della funambola (affidata a Nathalie Mentha) che tende invece ad innalzarsi in una continua tentazione al volo che è vertigine di vuoto e continua ebbrezza.
In entrambi i casi la precisione del gesto separa, in modi diversi, la vita dalla morte e la necessità del movimento dalla tentazione continua della posa statuaria. Se, però, per il gesto giapponese il movimento resta attaccato alla terra, è verso il cielo che tende il movimento della circense. Gravità contro leggerezza, insomma. Terra e aria che si cercano.
E del resto è Neve il nome della funambola, un nome fluttuante, un nome che cade, sì, ma con la grazia del balletto che è il più stretto parente dell’arte del camminare sopra un filo. E chissà se anche il nome del samurai si porta dentro altrettanta forza evocativa nella sua lingua originale.

A queste prime contrapposizioni se ne aggiungono immediatamente altre in un gioco cangiante e problematico.
In primo luogo c’è il braccio di ferro tra la voce narrante (in italiano, ma con lo spiccato accento francese dell’attrice a dare un segno di appartenenza culturale più preciso) e le ragioni della scena che resta vincolata prettamente al gesto e ai dialoghi (ridotti all’essenziale) dei due personaggi principali.
Se la scena resta ancorata all’eterno presente dell’azione e ha un’evidenza di per sé che non ha bisogno di particolari spiegazioni, il testo, veicolato dalla voce, attraversa letteralmente il quadro complessivo. Alle volte ha la funzione demiurgica di evocare dal nulla l’immagine, altre volte la sorveglia dall’alto con curiosa compartecipazione, spesso la abbandona per andare avanti e indietro nel tempo a raccontare altro con la vocazione onnisciente della pagina scritta.
Strana, intrigante, fusione tra romanzo e teatro.
Nella sua doppia posizione di voce narrante e personaggio Nathalie Mentha è costretta a una continua rimodulazione per passare naturalmente dall’uno all’altro, entrando e uscendo dai due diversi livelli della narrazione con delicatezza e precisione.

L’ultima contrapposizione respira, invece, nello spazio, e si frappone tra il gesto dell’attore e la spettacolarità della vocazione scenografica, tra l’intimismo del racconto e la grandiosità comunque astratta (fondata com’è su pochi segni immediatamente riconoscibili) dello sfondo.
Neve fonda molto del suo fascino su un complesso lavoro di drammaturgia della luce in cui la scena è letteralmente disegnata in profondità grazie a un inedito lavoro di retroproiezione sul fumo che, sin da prima dell’inizio dello spettacolo, riempie non solo la scena, ma, necessariamente, visti gli effetti che deve produrre, anche la sala.
I primi momenti introduttivi del racconto, ad esempio, sono accompagnati dalla retroproiezione di una nevicata che disegna nello spazio un cangiante gioco di raggi luminosi che tendono prospetticamente verso il fondoscena.
Null’altro si vede nel buio assoluto che deriva da questa scelta, se non questii fasci luminosi che paradossalmente dicono, prima di tutto, il buio e gli attori si trovano nella complessa posizione di dover competere con la luce per l’attenzione del pubblico pur integrandosi al suo interno e spesso assecondandola.
Più avanti, un semplice fascio di luce orizzontale disegna un paesaggio reso montuoso e nuvoloso dall’utilizzo di accorti sbuffi della macchina del fumo. Avviene nel momento in cui Neve, che aveva abbandonata la sua vita da circense per sposare il samurai con cui ha anche una bambina, non sa resistere alla tentazione di tendere una fune tra due picchi montuosi per un’ultima passeggiata, ma cade nel vuoto sparendo alla vista anche dello spettatore.

Da questo complesso gioco di contrapposizioni in cui anche la musica ha un ruolo preponderante nella sua evocazione di atmosfere sentimentali rarefatte viene fuori uno spettacolo suggestivo e intimista al tempo stesso, calligrafico e romantico, semplice e complesso. Sublime sintesi di opposti in un’armonia superiore che non è alla fine quella della voce narrante, ma quella dello sguardo dello spettatore che interpreta i segni sparsi della scena per farne un altrove in cui, finalmente, riconoscersi.


(Neve);
Regia: Pino Di Buduo
Con Keiin Yoshimura, Nathalie Mentha
Produzione: Teatro Potlach & Keiin Yoshimura (Italia / Giapppone)


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