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Forse che sì, forse che no: per una rilettura gender di True Detective

Pubblicato il 28 agosto 2015 da Annalaura Imperiali


Forse che sì, forse che no: per una rilettura gender di True Detective

Al di là della trama e di qualunque indice di gradimento soggettivo della serie, quest’ultima stagione di True Detective merita senza ombra di dubbio un approfondimento che prenda le mosse dalla tematica del gender.
È vero e riconosciuto quasi all’unanimità il fatto che l’ibridazione tra cinema e televisione stia diventando un fenomeno progressivamente sempre più apprezzato, diffuso e messo in pratica; ed è pur vero che mai, in modo così deciso ed interessante, prima della serie televisiva di True Detective, si stesse assistendo alla ricerca di una “ring composition” che chiudesse la circolarità dei racconti antologici di ciascuna stagione con degli elementi indubbiamente paralleli.
Se nella prima stagione di True Detective l’episodio finale, Carcosa, terminava con una riflessione letteralmente fatta sui massimi sistemi dell’universo fino al profondo del quale la grande mente di Rustin Cohle aveva portato a termine il suo percorso psicofisico e con una totale riappacificazione tra i due principali personaggi maschili della storia narrata, nel finale della seconda stagione, Omega Station, l’omega letterale e figurata della storia porta al traguardo di questa sorta di mafia-movie in chiave finanziaria e post-moderna due donne che insieme sono sopravvissute con forza a tutti i grandi uomini presenti nella sceneggiatura originale.
Insomma: possiamo dire che una rivalsa dei sessi e, giocoforza, di chi porta i pantaloni all’interno della società descritta da Nic Pizzolatto, si sia messa effettivamente in cammino verso un meccanismo di alternanza e di ribaltamento dei ruoli? Forse si, forse no. Certo è che dalla seconda stagione della serie della HBO attualmente più amata dal pubblico italiano ed internazionale emerge con prepotenza il potere delle donne nella società contemporanea. Questo laddove Kelly Reilly (alias Jordan Semyon) e Rachel McAdams (alias Antigone "Ani" Bezzerides) risultano essere l’una il vero ragno che tesse la tela nel pericoloso gioco da gangster del compagno Vince Vaughn (alias Francis "Frank" Semyon) e l’altra il vero macho che non ha bisogno né di perversioni (si pensi alla condotta di vita ambigua di Taylor Kitsch, alias Paul Woodrugh) né, tantomeno, di droga e alcool a gogò per attingere quella – finta? – forza che tira fuori troppo tardi un Colin Farrell (alias Raymond "Ray" Velcoro) incapace di tenersi stretta una donna, la ex moglie, e un figlio, il piccolo “rosso malpelo” dall’aria triste e solitaria, a seguito di un trauma da stupro subìto proprio dalla passata compagna di lui.
Le donne, dunque, come fonte di passione, di amore e di vera forza motrice perché tutto si compia, giocano un ruolo preminente nell’ambito di questa trama fitta e, se vogliamo, anche un po’ troppo complessa per essere di presa immediata da parte del grande pubblico il quale, a differenza della prima stagione, si ritrova a dover seguire le fila degli intrighi di politici corrotti con molta più difficoltà rispetto a quando seguiva il satanismo e il femminicidio portati avanti per diciassette lunghi anni da parte di un inquietante serial killer in Louisiana.


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