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Gli artigli d’oro dell’orso giapponese

Pubblicato il 12 settembre 2005 da Giovanni Spagnoletti


Gli artigli d'oro dell'orso giapponese

Miyazaki o della benevolenza. O della simpatia, fate voi. Certo è che vederlo, Hayao Miyazaki, trionfatore a Berlino insieme al Paul Greengrass di Bloody Sunday, dopo anni e anni di onorata carriera e mille e più verba volant su un’animazione giapponese che fuori dai suoi confini geografici subito diveniva per magia ridicola e violenta, fa un certo effetto. Un gran bell’effetto comunque, considerato che, davvero da un momento all’altro, tutto il mondo al di fuori dell’Asia si è reso conto di quanta poesia ci fosse nelle sue mani e nelle sue idee. L’Orso d’oro ad un film di animazione giapponese non ce lo saremmo aspettato neanche nei nostri sogni più spinti, e non tanto perché da troppo tempo in astinenza di un premio importante che riconoscesse tutti gli amanti delle anime finalmente degni del grande cinema, quanto perché, forse molto più realisti di quanto non ci si facesse, davvero non pensavamo che così, quasi dal giorno alla notte, da una posizione di forte critica per l’animazione giapponese in genere si passasse ad un riconoscimento così prestigioso (e meritato) per un singolo autore. Eppure è successo: Hayao Miyazaki, dopo aver iniziato qualche tempo fa un rapporto con la Buena Vista che ha sancito la distribuzione delle opere presenti e future del suo Studio Ghibli anche nei paesi dell’Occidente, e dopo aver giurato che La Principessa Mononoke sarebbe stata la sua ultima regia, ce l’ha fatta. Spirited Away (o anche Il viaggio di Chihiro come pure Sen to Chihiro no kamikakushi) bissa il Leone di S. Marco alla 19° Mostra del Cinema per ragazzi di Venezia del 1966 conquistato da Osamu Tezuka col suo Jungle Taitei, e vince in Germania un riconoscimento che potrebbe (forse) anche riaprire la strada ad un revisionismo critico su tutta quella produzione per anni accusata, in Italia e non solo, di fare sfracelli nelle menti e negli atteggiamenti dei piccoli telespettatori. Qui in Italia, le opere di Miyazaki (pensiamo a Conan il ragazzo del futuro, Heidi, Il fiuto di Sherlock Holmes, Lupin III: il Castello di Cagliostro, Rascal il mio amico orsetto, Il gatto con gli stivali, Sally la maga, Marco) sono state quelle che per prime battezzarono il fenomeno dell’anime boom in compagnia dei robot di Gô Nagai (e Yoshiyuki Tomino), le navi spaziali di Reiji Matsumoto e alla Lady Oscar di Ryoko Ikeda. E, al pari di tutti questi, anche Miyazaki ha dovuto subire negli anni l’oscurantismo programmatico dei grandi network nostrani, in nome di una sorta di “moralità” dell’arte capace di prevenire l’insorgere di comportamenti violenti (insiti, si diceva, nelle produzioni animate del Sol Levante) in chi, questi cartoni, li guardava e li apprezzava. Dopo più di venti anni chissà come ci saranno rimasti allora tutti quelli che gridavano all’anatema non appena sentivano aria (o vedevano immagini) di toons giapponesi: già Mononoke Hime aveva ottenuto un discreto successo fuori casa sua (record d’incassi per un lungometraggio animato giapponese con 11 miliardi e 300 milioni di yen guadagnati in tutto il mondo), creando una sorta di caso. Ora ci si mettono anche l’Arte, il Festival di Berlino e l’Orso d’oro. Con tanta pace del buonismo psicologista della prima ora e delle migliaia di critiche acide perse adesso nel vuoto come i brutti sogni al mattino.


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