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Godard vs Moore

Pubblicato il 18 settembre 2004 da Alessandro Izzi


Godard vs Moore

La differenza sostanziale tra il cinema di Godard e quello di Michael Moore non è da ricercarsi nei contenuti che i due autori vogliono veicolare (comune, in fondo, è la posizione critica nei confronti dell’attuale società dei consumi), né, paradossalmente, nelle scelte formali e stilistiche (se pensate come categorie “astratte”) che vengono di volta in volta applicate nei rispettivi film e che sono, innegabilmente, molto diverse tra loro, ma non per questo incompatibili (entrambi adottano, per fare un esempio, la scelta del collage ironico costruito su sequenze preesistenti anche se per fini diversi). La differenza semmai sembra essere del tutto immanente alle opere stesse e coinvolge, essenzialmente, la posizione che i due autori adottano nei confronti del processo comunicativo che viene, alla fine, messo in atto. Per Godard, infatti, tale processo è sempre e necessariamente più importante del messaggio che esso deve veicolare. La forma dell’opera, per questo, è conseguente ad un atteggiamento teorico (che deriva prima di tutto da un’attitudine morale) e il senso del film non deve “precedere” le scelte linguistiche di volta in volta adottate, ma deve “coesistere” con esse. Ne consegue una precisa posizione “altra” rispetto alla logica dei mass media che, al contrario, confezionano la forma del discorso sulla base del contenuto che deve essere mediato. E ci pare superfluo sottolineare come gli schematismi sui quali si costruisce, ormai, la nostra percezione delle notizie e, quindi, per estremo, del mondo intero, derivino tutti da questa prassi in uno schematismo che ci ha abituati a pensare che una cosa non esiste se essa non passa attraverso lo schermo dei media. A contenuti fortemente mediati, insomma, e del tutto liberati da ogni forma di dialettica interna (una cosa è solo “quella” cosa ed ammette una sola possibile interpretazione) subentra una forma standardizzata e rigidamente codificata. Se questo è il contesto nel quale il regista francese lavora non c’è da stupirsi allora che il risultato finale della posizione estremistica godardiana corrisponda ad un necessario esilio dai grandi circuiti del consumo e anche del commercio delle immagini. Il suo è un Cinema che parla a pochi, e questo nonostante il fatto che si proponga di agire direttamente all’interno del tessuto sociale perché impone al proprio pubblico scelte coscienziali e rivoluzioni individuali. Ma una scelta del genere sarebbe davvero pensabile nel contesto americano? Avrebbe un senso in quella immensa capitale del male comunicativo che affligge il nostro secolo? La risposta che Michael Moore fornisce a questa domanda è, fin dall’inizio negativa. In un contesto ormai fortemente standardizzato, dove la fanno da padroni meccanismi comunicativi ormai del tutto incancreniti che veicolano in maniera quasi inconsapevole il linguaggio del potere, come acutamente nota Noam Chomski, la posizione di Godard finisce paradossalmente per inserirsi in quello status quo che vorrebbe denunciare. Quello che Moore sogna è, in effetti, un cinema che possa concretamente inserirsi nel corpo del tessuto sociale ed agire in esso come un vero e proprio cancro, obbligando lo stesso mondo a rivelare le sue storture e a produrre, conseguentemente, i necessari anticorpi. Ma per far questo, il regista americano deve necessariamente appropriarsi dei modelli comunicativi che il mondo contemporaneo porta avanti e, significativamente, ritorcerli contro se stessi. Se il pubblico contemporaneo è abituato solo alla televisione del dolore (e noi italiani non abbiamo niente per cui sentirci superiori agli americani visto che seguiamo con passione la bandiera Costanzo/De Filippi), allora niente ha più senso che prendere una donna afflitta dalla perdita di un figlio e scagliarla contro la muta ed ostile Casa Bianca. Insomma Michael Moore cavalca consapevolmente l’onda mass mediologica e persegue un cinema in cui il contenuto vuole imporsi alla forma e modellarla. Quello che salva il suo cinema dallo schematismo troppo facile del reportage televisivo è la convinzione che il contenuto vada, comunque, scoperto direttamente sul campo. Quando, infatti, Moore comincia a girare un documentario è, generalmente, consapevole di una direzione da prendere, mai di una conclusione cui arrivare (il principale difetto di Fahrenheit 9/11 sembrerebbe, in effetti, essere proprio questo: che una conclusione era troppo presente nella mente del regista fin dall’inizio al punto da non fargli rendere conto che la destituzione di Bush dalle leve del potere non comporta l’eliminazione del meccanismo perverso che l’ha messo lì). Da questa differenza primigenia nasce, quindi, la reciproca incomprensione tra i due registi (esplosa poi a Cannes a seguito delle dichiarazioni del regista francese), ma a noi sembra, piuttosto, che le due forme di cinema siano a loro modo necessarie ed ugualmente vitali. Lasciamo ad altri i pronostici e le sterili discussioni su quale delle due entrerà davvero nella storia del Cinema. È un discorso che non porta da nessuna parte perché, alla lunga, a vincere sul passare degli anni è solo il Tempo.

[settembre 2004]


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