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I Duellanti

Pubblicato il 2 marzo 2016 da Monia Manzo


I Duellanti

I Duellanti/The Duellist, tratto dal più noto romanzo di Joseph Conrad, se non altro per aver ispirato anche una celebre versione cinematografica firmata da Ridley Scott con gli attori Harvey Keitel e Keith Corradine costituisce complessivamente un successo per l’affascinante attore/regista Alessio Boni.
Oltre ad interpretare il ruolo di uno dei due protagonisti, ovvero il raffinato e stürmeriano D’Hubert, l’interprete bergamasco ne firma anche la regia in coppia con Roberto Aldoradi, dimostrando di essere all’altezza di un adattamento drammaturgico della complessa opera conradiana. Uno dei maggiori pregi di questa versione teatrale dei Duellanti è che il testo dell’autore anglosassone non viene mai riutilizzato in modo irrispettoso, come succede sempre più spesso nel teatro contemporaneo, ormai portato ad autocelebrarsi. Qui al contrario il lavoro di trasposizione dal testo alla scena permette di raggiungere un buon compromesso tra forma e contenuto, un buon equilibrio ottenuto attraverso un’oculata scelta di scene recitate rivolgendosi al pubblico, e coinvolgendo così lo spettatore in fasi narrative, che però a tratti sembrerebbero più adatte alla versione cinematografica.
Il lavoro più interessante che è stato operato nei Duellanti, è in particolar modo la concezione e resa dei personaggi, in rapporto allo spazio scenico, che delimita ma al contempo enfatizza l’esplosione fisica dei corpi in tensioni di Boni e Prayer: una forza che sembra essere una maledizione bisognosa di esorcizzarsi, per non portare inevitabilmente alla morte dell’individuo che appare in conflitto con sé stesso.
È questo il tema centrale della storia ottocentesca e più precisamente napoleonica di due soldati francesi, appartenenti allo stesso corpo, quello degli Ussari, che si sfideranno per tutta la loro esistenza, senza avere un reale motivo per farlo.
Il teatro Quirino di Roma ha ospitato con entusiasmo uno spettacolo in cui si alterna amore, odio, guerra, vita e sopratutto l’idea della fine e della morte sempre in agguato. Il paradosso che salta immediatamente all’occhio é che non si combatte per vivere, ma sembrerebbe piuttosto che i due soldati napoleonici vivano o piuttosto sopravvivano, grazie all’idea del combattimento, del rischio di poter essere uccisi durante uno dei loro duelli autodistruttivi. Il tema dell’innata e arcaica violenza primigenia dell’uomo, cara a Conrad, già in altre opere fondamentali come Heart of Darkness, emerge prepotentemente anche qui, donando un’atmosfera cupa e inebriante, merito del lodevole lavoro fatto dai due registi, che devono essersi concentrati in particolar modo sul vitalismo masochista dei personaggi, a metà tra Romanticismo e cinema in costume.



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