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I Simpsons allo specchio

Pubblicato il 27 settembre 2007 da Alessandro Izzi


I Simpsons allo specchio

Il titolo I Simpsons – Il film contiene già (sia nell’edizione americana che i quella italiana) un sostanziale ammiccamento nei confronti di quel pubblico (assai numeroso) che è corso in sala non appena l’ultima fatica di Matt Groening e soci è stata liberata.
Ci viene promesso, infatti, non un film, ma IL FILM, l’opera decisiva alla quale, come annunciavano gli ammiccanti trailers già da qualche mese, si stava lavorando da centodieci anni (tanti sono poi gli anni del cinema così come abbiamo cominciato a contarli dai Lumiere in poi). Eppure, non passano che pochi minuti dall’inizio della proiezione che lo spettatore è chiamato in causa a rendersi conto che, quello che sta passando sotto i suoi occhi ammirati, divertiti, anche estasiati per i molti fan, tutto è fuorché un film.
La versione per le sale cinematografiche de I Simpsons (quella che Bart si impegna, nella consueta scritta alla lavagna che apre la visione, a non scaricare illegalmente), infatti, sfugge ad ogni criterio di catalogazione. È, come la serie TV del resto, una scheggia impazzita di immaginario, un esercizio comunicativo e metacomunicativo che approda su grande schermo quasi casualmente (forse perché era, in fondo, l’unico posto in cui non era ancora stata), ma rivendica, ad ogni passo, una sua dimensione “altra”.
I Simpsons versione cinema, in fondo, ci sta proprio male sullo schermo, al buio della sala e in mezzo al rimastichio di popcorn. Anche ingrandendo i limiti angusti dell’inquadratura dal panoramico allo scope (cosa che fa, non a caso, lo scienziato pazzo a bordo di un biplano da fumetto) lo spazio della proiezione risulta sempre troppo angusto non tanto per i personaggi (che son sempre quelli), ma per il principio di comunicazione che “li” mette in atto. Del resto è da dire che il "film" dei Simpsons sta male su grande schermo tanto quanto stavano, in fondo, male i singoli episodi della serie televisiva sul piccolo. Se lì si respirava perennemente un’aria di cinema che sfondava la bidimensionalità della striscia del fumetto televisivo quasi che ogni puntata aspirasse continuamente alla grandezza dell’affresco cinematografico, qui si ha piuttosto l’impressione che il film aneli sempre alla dimensione contenuta, bozzettistica, ma al fondo acida nel tratteggiare interi discorsi in pochi colpi di matita.
Insomma a voler cercare di definirla, consapevoli dell’inanità del tentativo, dovremo dire piuttosto che I Simpsons – Il film altro non è, nella sua palese bugia, un ardito esperimento di comunicazione multimediale, un’opera che, ancor più della controparte televisiva, sta a cavallo tra vari sistemi di divulgazione e vari codici linguistici.
Proprio per questo la pellicola ha, fin da subito, l’urgente bisogno di moltiplicare i livelli della percezione, sfondando in avanti (quindi verso il pubblico) la superficie dello schermo e annettendo, con questo, al proprio interno, lo stesso ricettore del messaggio che diviene parte integrante della comunicazione stessa. I Simpsons non cercano (non l’hanno mai fatto del resto) un ricettore passivo e questa volontà li pone automaticamente fuori dal meccanismo comunicativo cinematografico che, invece, pretende sempre il più alto grado di passività nel proprio pubblico. Ecco allora spiegate l’apertura e la chiusura della pellicola con i loro meccanismi di ribaltamenti speculari. La proiezione si apre, infatti, con le immagini di Grattachecca e Fichetto che si prodigano in un’avventura estremamente lunga e complessa, un Kolossal per loro che sono abituati, nella serie TV, ad esprimersi nello spazio risicato di una ventina di secondi. Lo svilupparsi dell’avventura viene, però interrotto dal vocione di Homer che lamenta il fatto di dover pagare per vedere un qualcosa che, fino a quel momento, era stato possibile guardare standosene comodamente a casa senza, per di più, sborsare un centesimo. La posizione di Homer, chiuso al cinema in attesa di mirabolanti soluzioni visive raddoppia quella di noi spettatori che, seduti in sala, siamo chiamati ironicamente in causa dallo stesso personaggio che si rivolge a noi rompendo una delle regole principali dell’immedesimazione cinematografica: guardando direttamente in macchina. Allo stesso modo il “film” e il “film nel film” si rispecchiano reciprocamente giocando a rimpiattino con le aspettative del pubblico. Il gioco di specularità va oltre: sottoposti all’allargamento degli spazi garantiti dal grande schermo tutti i personaggi subiscono un processo di approfondimento che li denota di una psicologia più complessa ed articolata. Questo conseguimento trova espressione anche nel fatto, anche questo giocato specularmente, che Grattachecca all’inizio del film parla con la sua voce, allo stesso modo Maggie alla fine della proiezione, sui titoli di coda pronuncia la sua prima parola. L’acquisizione della parola diventa, da un certo punto di vista, il segno tangibile dell’acquisizione di una maturità ulteriore per tutti i personaggi (anche se molti sono, per necessità, relegati sullo schermo nella posizione di amichevoli comparse). I Simpson – Il film è, quindi, un omaggio alla dimensione controculturale dei personaggi e delle loro avventure.
Ma il meccanismo non è mai assolutamente irreversibile e, anzi, non mancano nel film momenti in cui la dimensione e il respiro cinematografici si piegano a ritmi e soluzioni più televisive che rompono ironicamente l’immedesimazione con l’arma del sorriso (si pensi alle scritte che irrompono in sottoimpressione durante la proiezione, o ai cartelli anch’essi palesemente televisivi che compiano verso la fine della proiezione). E qui sta, in fondo, la grandezza degli autori che non cadono neanche nel tranello di dover presentare ex novo i propri personaggi al pubblico del cinema, cosa, questa, che, in genere, rende molto lente, ad esempio, le trasposizioni cinematografiche di fumetti di successo.
Personaggi in fondo troppo grandi per il piccolo schermo si rivelano, alla fine, troppo grandi anche per i maxi schermi dei Multiplex. E in confronto le nostre esistenze, il mondo nel quale viviamo e che tanto vorremmo riuscire a cambiare, appare di colpo in tutta la sua innegabile meschinità.


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