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Il cinema di Matteo Garrone - Ossessioni private tra fiction e documentario

Pubblicato il 13 ottobre 2012 da Arianna Pagliara


Il cinema di Matteo Garrone - Ossessioni private tra fiction e documentario

Il cinema di Matteo Garrone nasce all’insegna di una tendenza spiccata al documentarismo, forte di un’attenzione particolare all’attualità dal punto di vista sociale ma anche esistenziale: pensiamo al film a episodi Terra di mezzo e al successivo Ospiti, entrambi incentrati sui temi dell’immigrazione e dell’integrazione. Siamo alla fine degli anni Novanta e il regista romano, all’inizio del suo percorso cinematografico, possiede già un preciso sguardo sul presente: è uno sguardo pulito e diretto che indugia sulle vicende dei personaggi in maniera apparentemente casuale, assolutamente libera, piacevolmente spontanea. Garrone si muove in una dimensione ibrida in cui si sovrappongono documentario e fiction. Questo approccio caratterizza fortemente l’interezza della sua produzione senza tuttavia diventare un limite o un passaggio obbligato: il regista infatti non abbandona mai la propensione al dato documentaristico, ma al contempo fa sì che essa evolva e si modifichi insieme al suo cinema, rinnovandosi e diversificandosi a seconda dei casi.
Procedendo in senso cronologico notiamo appunto come l’attitudine al realismo, che al principio è esaltazione di una profonda, incorrotta naturalezza della rappresentazione, divenga man mano così estrema da sfociare non nel documentarismo tout-court, ma in una sorta di “fiction iperrealista”, potremmo dire. E’ il caso del suo ultimo film, Reality, in cui si verifica in un certo senso anche un corto circuito tra l’oggetto della rappresentazione (un uomo che vuole partecipare a un reality show) e il modo della rappresentazione (lo spettatore che sente quasi di “sbirciare” impudicamente tanto nella quotidianità di quest’uomo quanto nella sua mente distorta, come se lo schermo cinematografico potesse diventare un buco della serratura).
Dopo Ospiti il regista gira Estate Romana, riconfermando la sua propensione a miscelare fiction e documentario così come accade nel successivo L’imbalsamatore. Quest’ultimo film, realizzato nel 2002, è una tappa importante nella carriera di Garrone. Con esso il regista affina la sua poetica intrecciando alla ricerca del realismo una tematica peculiare che ritornerà nei suoi successivi lavori: l’ossessione, l’idea fissa, che qui tormenta il protagonista Peppino come poi accadrà ad altri personaggi del suo cinema.
Per tornare al rapporto realismo-fiction, notiamo ne L’imbalsamatore e nel successivo Primo Amore come la ricerca di naturalezza passi anche e soprattutto attraverso il suono, un suono sporco, ruvido, accompagnato da dialoghi in cui è preponderante l’uso, se non del dialetto, di un italiano quasi colloquiale e fortemente accentato (il primo film è ambientato in Campania e il secondo al Nord). Tanto che alcune frasi pronunciate a mezza bocca dai tormentati protagonisti di Primo Amore (Vitaliano Trevisan e Michela Cescon) quasi non sono comprensibili.
Con Gomorra (premiato a Cannes e non solo, vero e proprio punto d’arrivo nel percorso cinematografico di Garrone) il realismo si estremizza: se i due precedenti film erano ispirati a casi di cronaca questo è tratto dal best seller-inchiesta di Saviano; l’uso del dialetto diventa un punto di partenza, i dialoghi sono sottotitolati. La miscela di documentario e fiction si fa più densa e complessa, al contempo però più studiata e programmata, e lo spettatore deve comprendere tutto senza che nulla sfugga (diversamente da ciò che accadeva in Primo Amore).
Dopo il successo di [Gomorra-> Garrone riconferma lo spessore della sua poetica con il già citato Reality. Qui i suoi colori densi e pastosi si fanno ancora più carichi, i suoi personaggi da sempre “autentici” sfiorano il grottesco, e il film diventa - al pari di Gomorra – una sorta di studio antropologico, studio che se in Gomorra era crudo e freddo qui è si ironico, ma amaro e desolante. Se pensiamo alla levità di un film come Ospiti (che racconta le vicende di due ragazzi albanesi sbarcati in Italia) notiamo subito come l’occhio di Garrone sia diventato più nervoso e dinamico, meno indulgente con la realtà rappresentata. Il suo realismo sta diventando iperrealismo. La realtà stessa appare sempre più assurda. E’ un mondo kitsch, pacchiano e chiassoso quello descritto, un mondo che non trova riscatto in nessun modo, dove la violenza non è esplicita e brutale come in Gomorra ma sottile e tuttavia pervasiva, invisibile e perciò più insidiosa. E’ soprattutto una “violenza massmediatica” che agisce su un piano interiore e mentale, portando il racconto a una dimensione quasi allucinatoria. Ecco allora che riappare il filo rosso dell’ossessione che, come accennato, lega molti personaggi di Garrone. Peppino, il tassidermista nano de L’imbalsamatore, era tormentato dall’amore non corrisposto per il giovane e bellissimo Valerio. Il suo era un sentimento malsano, che faceva di lui un uomo opprimente, ambiguo, inquietante. Vittorio, cupo e ombroso protagonista di Primo Amore, ha invece una fissazione particolare, quella della magrezza come unico ideale di bellezza femminile. Arriva a plagiare gradualmente la sua compagna fino a farla diventare anoressica. L’ossessione privata di Luciano, il pescivendolo napoletano di Reality, è invece un segno (triste, sconcertante) dei tempi: vuole ad ogni costo partecipare a Il Grande Fratello, e finisce per cadere in una sorta di psicosi paranoide. L’attenzione di Garrone è insomma tutta per questi personaggi borderline, prede delle loro stesse ossessioni malsane e pericolose, che ammantano il racconto di atmosfere spesso fosche e pesanti.
A creare un perfetto equilibrio tra contenuti e piano stilistico, tra forma e sostanza insomma, è proprio la propensione al documentario. La materia trattata può essere morbosa e angosciante (L’imbalsamatore, Primo Amore), incandescente e carica di violenza (Gomorra), oppure grottesca (Reality): in ogni caso Garrone la restituisce alla realtà, mostrando come questa sia spesso ben più conturbante e impressionante dell’immaginazione. Attraverso questo approccio naturalistico alla rappresentazione il regista porta insomma i suoi personaggi fuori dallo schermo, ponendoli – con tutto il loro carico emotivo ed esistenziale - accanto allo spettatore.



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