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Il cinema italiano del 1960

Pubblicato il 6 marzo 2010 da Edoardo Zaccagnini


Il cinema italiano del 1960

Cinquant’anni fa correva l’anno 1960. E non c’è dubbio che sia stato un anno assai importante per il cinema italiano. Basti pensare al valore di tre pellicole uscite in quell’anno: La dolce vita di Federico Fellini, L’avventura di Michelangelo Antonioni, e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Tre film sulla crisi, tre certificati dell’ingresso drammatico nel contesto neocapitalistico, del salto improvviso in un altro modo di produrre e di essere. Tre film di tre grandi autori che già nei loro lavori precedenti (Le notti di Cabiria, Le notti bianche, Il grido, tutti del 1957) avevano raccontato un rapporto tra realtà e individuo sempre più complesso e inconciliabile. Nel ’60 siamo dentro al boom economico italiano, all’interno di una società che emigra e che si sta sempre più industrializzando. Prendiamo le parole con le quali Lino Miccichè, nel suo libro Cinema italiano: gli anni ‘60 e oltre, descrive questi tre lavori: “Da una prospettiva più sociologica che estetica questi film appaiono oggi come tre punti di vista complementari in cui l’eredità degli anni ‘50 e la prospettiva degli anni ’60 coesistono fuse in un unico, dolente, atteggiamento problematico. La loro attualità rispetto alla stagione in cui furono realizzati consiste proprio nella loro capacità di esprimere, a diversi toni e livelli, la difficile transizione tra due stadi profondamente diversi della giovane società italiana”. Poi Miccichè aggiunge: “Questi film denunciano, pur nelle differenti focalizzazioni adottate, il comune sfaldarsi della coscienza etica (Fellini), esistenziale (Antonioni), e socio politica (Visconti) di fronte all’avanzare della società industriale”. Tre grandi film, dunque, aprono il decennio che si chiuderà con Piazza Fontana. L’avventura, film in cui la forza del paesaggio e lo stile della narrazione si fanno preciso contenuto, racconta la crisi di un mondo borghese incapace di regolare i propri sentimenti ed i rapporti umani. Rocco e i suoi fratelli racconta le conseguenze di uno sradicamento culturale e documenta il trauma vissuto da una società (fino a pochi anni prima prevalentemente contadina) a causa del processo industriale. La dolce vita, film dal linguaggio estremamente moderno, oltre a segnare più di qualsiasi altro film il costume italiano, racconta lo scivolamento verso una vita non autentica che produce stordimento e mostruosità. Tre film che raccontano un’angoscia generalizzata, belli ed efficaci, aprono il decennio, ma il 1960 è anche altro. E’ lo sviluppo di un filone cinematografico che ripercorre il passato recente del paese, che rilegge il fascismo, la resistenza e la guerra finita ormai da qualche anno. E’ un filone che nasce sulla scia del grande successo ottenuto da due film italiani al Festival di Venezia del 1959: Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, e La grande guerra, di Mario Monicelli. Le due pellicole si dividono il premio veneziano l’anno precedente al 1960, e da quel momento in poi, per una manciata d’ anni, diciamo fino al 1963, il cinema italiano tornerà spesso sui temi del fascismo, dell’antifascismo, della guerra e della resistenza. Anche perchè la tematica storico resistenziale, fino a poco tempo prima quasi tabù, è diventata, nel frattempo, materia ben adatta da inserirsi in un dibattito politico allora in atto nel del paese. Da una parte si manifesta la preoccupazione di un rigurgito neo fascista, mentre dall’altra si cerca di liquidare in fretta il passato per tuffarsi nell’avventura industriale. In questo clima, matura il tentativo di costruire una memoria e di cogliere la complessità e le contraddizioni di pco tempo prima. Nasce così un filone composto da commedie e da film drammatici, con le prime piuttosto carenti ideologicamente ed oscillanti tra la satira e la farsa, che si occupano soprattutto di raccontare, sdrammatizzandola, l’ambivalenza fascismo/antifascismo vissuta, anni addietro, dalla piccola borghesia italiana. Tra le commedie uscite nel 1960 su questo tema, la migliore è Tutti a casa di Luigi Comencini, mentre un gradino più sotto sta Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini, pellicola che rappresenta, attraverso la figura di un carrista di origine contadina, il caos in cui si trovò l’Italia all’indomani dell’8 settembre. Queste commedie sono abbastanza consolatorie e sembrano ironizzare senza troppa amarezza sulle contraddizioni che caratterizzarono il comportamento di tanti italiani in quegli anni. Tra i film drammatici, invece, la condanna del fascismo è più decisa e tra le opere uscite nel 1960, la più importante è l’esordio nel lungometraggio di Florestano Vancini, La Lunga notte del ’43. Film chiaro e sincero, anche nel notare la frattura fra passato e presente, la pellicola, per nulla consolatoria, rievoca l’eccidio antifascista avvenuto a Ferrara nel novembre del 1943. Il passato rivive attraverso il figlio di uno degli uccisi, il quale, però, pur avendo ereditato l’antifascismo paterno non riesce a viverlo come un sentimento davvero autentico. Anche lo stesso Rossellini, soltanto un anno dopo Il generale della Rovere, torna sul tema della guerra e della resistenza, argomento a lui caro già dai tempi di Roma città aperta. Nel ‘60 lo fa con il film Era notte a Roma, che però non possiede la forza emotiva degli altri due titoli. Un altro film che nel 1960 torna sul tema della guerra è La ciociara di Vittorio De Sica, tratto dal romanzo di Alberto Moravia. La pellicola del grande regista di Ladri di biciclette è capace di raccontare la violenza del conflitto senza rinunciare a un cinema spettacolare ed intenso che ben si adatta a tutte le fasce di pubblico. Ed attento ai gusti del pubblico è anche un altro film del ’60 in qualche modo legato al tema della resistenza. E cioè Il gobbo, diretto da Carlo Lizzani attraverso un’efficace fusione di Neorealismo e cinema americano. Il film, che vede recitare anche Pier Paolo Pasolini, parte dalla vicenda, realmente accaduta, di Alvaro Cosenza, detto il “Gobbo del Quarticciolo”: un giovane che nella Roma occupata dai tedeschi prese le armi contro di loro ma poi, a liberazione avvenuta, divenne un bandito e le puntò contro il nuovo paese che stava nascendo. Lizzani fu bravo a costruire uno sfondo attraente e fu capace di dipingere le efficaci atmosfere della guerra e del primo dopoguerra. Ma il 1960 è anche altro. E’ per esempio l’anno in cui esordiscono Ermanno Olmi e Damiano Damiani, due registi che parteciperanno, con due modi assai diversi di fare cinema, alla storia del cinema italiano. Olmi gira Il tempo s’è fermato, e Damiano Damiani dirige Il rossetto. Il primo film racconta il lavoro e la convivenza di due operai, uno giovane e l’altro anziano, in una diga di montagna. Doveva trattarsi di un documentario, ma il giovane regista lombardo seppe trasformare la materia scelta nel suo primo lungometraggio di finzione. Il film rinuncia a tutti gli elementi spettacolari e si concentra, costruendo comunque un film grazioso ed efficace, sui gesti, sui comportamenti e sui piccoli particolari di un quotidiano poco comune. Il film di Damiani, invece, è un poliziesco dignitosissimo dai toni neorealistici. Scritto con la collaborazione di Cesare Zavattini, il giallo d’esordio dell’autore convince sia per le psicologie dei personaggi che per il quadro d’ambiente dipinto. Pietro Germi interpreta nel film un personaggio non troppo diverso dal commissario Ingravallo di Un maledetto imbroglio, lavoro da lui stesso diretto soltanto un anno prima, nel 1959, e considerato il primo film poliziesco italiano. Altre opere importanti del 1960 sono i due film realizzati dal versatile e capace Mauro Bolognini: Il Bell’Antonio e La giornata Balorda. C’è poi Kapò, film discusso del regista Gillo Pontecorvo, e c’è Adua e le compagne, diretto da un altro prezioso regista italiano, Antonio Pietrangeli. Ricordiamo anche I dolci inganni dell’eclettico Alberto Lattuada; I delfini di Citto Maselli e La ragazza in Vetrina di Luciano Emmer. Cerchiamo brevemente di riassumere i tratti e l’importanza di questa manciata di lavori. Partiamo dall’ultimo della lista, da quello che è uno dei migliori film di Luciano Emmer: La ragazza in vetrina, atto finale prima di un silenzio lunghissimo, quasi definitivo del regista. Il film racconta una storia di italiana immigrazione all’estero e si installa ben in vista nella bacheca dei tanti film italiani sull’argomento. La pellicola racconta la vicenda di Vincenzo, un emigrato in Olanda che lavora in miniera. La sua vita è dura e pericolosa ed egli vuole tornarsene in Italia, fino a che conosce una ragazza e cambia idea. Il prologo del film, tutto ambientato nella miniera, è dotato di un vigore drammatico e di una forza realistica insoliti per Emmer, che costituisce, qui, una delle pagine più intense che il cinema italiano abbia mai prodotto sul lavoro dei minatori e sulla presenza incombente e assidua della morte nei cunicoli del sottosuolo. Il film ebbe forti problemi con la censura democristiana, ed è un vero peccato perché è un film notevole. Resta il fatto che da quel momento in poi Emmer si eclisserà, non trovando il modo di sopravvivere in un cinema italiano che vince sette leoni d’oro in sette anni (Il generale della Rovere, 1959, La grande guerra, 1959, Cronaca familiare, 1962, Le mani sulla città, 1963, Il deserto Rosso, 1964, Vaghe stelle dell’orsa, 1965, La battaglia di Algeri, 1966). Non meno intensi de La ragazza in vetrina sono i due film che Mauro Bolognini confeziona in quel breve volgere di tempo: Il Bell’Antonio e La giornata balorda. Il primo film è rielaborato a partire dal romanzo di Vitaliano Brancati; il secondo è scritto in collaborazione con Alberto Moravia (lo spunto di partenza è quello di Racconti Romani) e soprattutto con Pier Paolo Pasolini, che già aveva scritto con Bolognini, solo un anno prima, il film La notte brava. Nel primo lavoro, fotografato magnificamente, e insieme poetico, satirico e velato di una dolorosa malinconia, l’ambientazione anni ’30 del romanzo viene traslata alla fine degli anni ’50. E se nelle pagine di Brancati l’impotenza del protagonista era la satira amarissima di quel gallismo siciliano (ma anche italiano) che sotto il fascismo, causa la campagna demografica, aveva trovato terreno fertile per assurgere a mito la virilità maschile, nel film di Bolognini la prigione del bellissimo ed infelice Antonio, un raffinato Mastroianni, è paradigma distorto di quella virilità obbligata e sociale della nuova Italia maschilista in anni di boom. Pasolini disse che Il bell’Antonio era un po’ ambiguo e lento, ma che era anche misterioso e affascinante. Così come affascinante ed efficace è l’altro film di Bolognini girato in quel periodo, La giornata Balorda. Siamo in una Roma di periferia e proletariato, durante una giornata estiva dominata dal caldo, dentro una città in rumorosa ricostruzione. Il protagonista, un giovane molto bello e già padre di una bambina appena nata, vaga alla ricerca di un lavoro ed entra in contatto con ambienti di diverso tipo e con mostruosità di vario genere. Alla fine di quella strana e lunghissima giornata tornerà dalla sua giovane famiglia con le idee più chiare e con qualche speranza in più. C’è poi Kapò, un altro film che racconta la degradazione morale che produce la guerra. Il film è ambientato in un campo di concentramento e narra la storia di una donna che perde di vista ogni valore umano nel disperato tentativo di sopravvivere, salvo poi redimersi con un gesto estremo che le provocherà la morte. Non è il miglior film di Pontecorvo, ma rimane una pellicola fitta di aspetti e di momenti validi e interessanti. Gli stessi che caratterizzano I Dolci inganni di Lattuada, un film sull’adolescenza inquieta di una ragazza che simboleggia i cambiamenti in atto nel costume nazionale, il fatto che i giovani inizino a cercare in un altro modo la loro identità, e lo facciano mettendo meglio da parte gli insegnamenti della propria franante cultura. Meno giovani della protagonista di questo film di Lattuada, regista molto attento allo studio del comportamento adolescenziale (pensiamo al precedente Guendalina), sono le protagoniste di Adua e le compagne, ennesimo film al femminile di Antonio Pietrangeli. Il lavoro prende spunto dalla Legge Merlin che nel 1958 decise la chiusura delle case di tolleranza, e la scelta delle quattro prostitute, che sono poi le protagoniste del film, è quella di associarsi per continuare clandestinamente la propria attività. Insieme, allora, in questa pellicola intrisa di realismo amaro e di valore sociale, nascosti, mica tanto, sotto il vestito della commedia di costume, le quattro donne affittano un casolare e portano avanti il loro mestiere dietro la facciata di una trattoria di campagna. Non è forse il miglior film di Pietrangeli, ma è un’opera carica di importanza e ricca di sfumature, nelle quali è possibile notare la grande sensibilità di questo regista prematuramente scomparso.
Passiamo alla commedia meno ambiziosa. Cosa fa, per esempio, Totò nel 1960? Recita in ben sei film, tutti, meno uno, diretti da validi mastri artigiani della commedia italiana. Sei pellicole famose, oscillanti tra la parodia e la satira, ma tutte, grazie anche alla presenza del grande attore italiano, a loro modo deliziose: Signori si nasce e Totò Fabrizi e i giovani d’oggi, diretti entrambi da Mario Mattoli. Letto a tre piazze, diretto da Steno, Noi duri di Camillo Mastrocinque, Chi si ferma è perduto, di Sergio Corbucci, e Risate di gioia di un regista che è di più di un valido artigiano: Mario Monicelli. E’ questo il film che meglio degli altri dosa con sapienza e mestiere comicità e amarezza, crepuscolarismo e satira di costume. Se nel film di Mastrocinque Totò fa solo una macchietta, mentre la vera star è Fred Buscaglione, negli altri il principe della risata contribuisce, con le sue fantastiche performance, ad arricchire la documentazione che questi film offrono sul costume italiano dell’epoca. E insieme a questi lavori ci sono altre commedie che non possiamo ignorare. Pensiamo a L’audace colpo dei Soliti Ignoti, diretto da Nanni Loy, due anni dopo il grande successo del primo episodio firmato da Monicelli, e pensiamo pure a Il mattatore, il film di Dino Risi costruito intorno al telento e all’energia di Vittorio Gassman. Ci sono poi
Intrigo a Taormina, film ironico e leggero sulla nuova borhesia italiana arricchita, e Le olimpiadi dei mariti, entrambi di Giorgio Bianchi, con il secondo che prende spunto dalle olimpiadi svoletsi a Roma in quell’anno, ma che è tutto giocato sull’eterno rapporto tra galli italiani e le meraviglie femminili straniere. Filmetto di relativo valore, ma in fondo innocente.

Da segnalare, poi, prima di chiudere questo lungo pezzo nel quale non parleremo dei musicarelli nè dei peplum, per motivi di spazio, La maschera del demonio, ottimo esordio di Mario Bava, uno dei maggiori registi di genere horror che abbiamo mai avuto in Italia. Questo film fonda le regole del gotico italiano ed è un film di razza, un lavoro eccezionale.

Eccoci alla fine di questo viaggio, lungo, si, ma che non può contenere altri titoli che in altra sede meriterebbero almeno una riga. Ci sembra, al termine di questo elenco, che il 1960 non sia stato un anno inutile per il cinema italiano. Tutt’altro.


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