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Il cuore è un cacciatore solitario: Le anime fiammeggianti dell’uomo scimmia

Pubblicato il 26 dicembre 2005 da Fabrizio Croce


Il cuore è un cacciatore solitario: Le anime fiammeggianti dell'uomo scimmia

Molte volte le scelte che si compiono nella scelta del cast di un film, specie se si tratta di un remake o una rivisitazione di una storia classica e già ampliamenta consegnata al mito, risultano determinanti per il tipo di discorso che si vuole portare avanti sui personaggi e sul loro impatto a livello iconografico, oltre che emotivo e psicologico, all’interno del linguaggio di un cineasta e del suo confronto con creature provenienti da altri mondi, da altre immaginazioni.
Fino ad ora la figura di Ann Darrow era legata all’immagine della giovane donna, bella, bionda e piuttosto passiva nella sua carica di seduzione, che un Kong innamorato e ammaliato teneva nel suo grosso pugno peloso arrampicandosi sull’Empire State Building, intento a difendere l’oggetto del suo desiderio con la brutalità innocente e la ferocia disarmante della belva della giungla dalla brutalità coplevole e ottusa delle belve della civiltà. E nell’immaginario collettivo le sembianze sinuose e il volto da innocente simulacro di passioni ancestrali sono state tramandate dalla diafana, elegante Fay Wray del 1933 alla più carnale e sanguigna Jessica Lange del 1976, un vero e proprio passaggio di testimone da una sensualità più implosa, trattenuta ed intensa alla sottolineatura più accentuata ed esposta della comunicazione erotica tra la bella e la bestia. Tutto questo passato iconografico viene sapientamente calato, dall’occhio di Peter Jackson, sul corpo di Naomi Watts, la cui scelta per il ruolo di Ann racchiude in sé il seme della continuazione e al tempo stesso del tradimento dei precedenti corpi attoriali amati dai Kong delle altre epoche. E sta nel tradimento l’arma vincente di questa nuova Darrow e l’ulteriore struggimento con cui si assiste al consumarsi dell’amore impossibile di Kong nei suoi confronti,come se ci fosse stata una trasfusione di umanità e di spessore da Ann/Naomi verso il gigantesco gorilla del quale è più possibile percepire la fragilità debordante e la maschera dell’aggressività disperata. Non è sicuramente un caso che il King Kong jacksoniano sia stato generato, nei movimenti e nelle espressioni facciali, da quell’Andy Serkis che già aveva prestato le sue capacità mimetiche al Gollum della trilogia tolkeniana. Partendo da queste riflessioni le analogie tra queste due particolari creature nell’interpretazione che Peter Jackson ne dà sono ad un livello molto più profondo di quello che i miracoli della computer graphic possano stabilire. Questo essere sospesi tra il limbo di un’umanità perduta o mai posseduta e una bestialità che abbrutisce e dieventa l’unico strumento attraverso cui si viene conosciuti e dunque rifiutati dalle comunità in cui si uniscono gli uomini (che siano gli hobbit o gli abitani di New York), il ruolo di freak, scherzo della natura (o anche ottava meraviglia del mondo), eccentricità da incatenare, sfruttare, temere, della quale non fidarsi e che, inevitabilmente, alla sfiducia risponderà con la sfiducia, la violenza e la prevaricazione. E Gollum è senza dubbio anche il personaggio più sensuale, più legato alla percezione materiale, animalesca e istintiva della realtà, seppur fuorviato e istigato nel suo rapporto con il mondo esterno da una nemesi, Smeagull, che affonde nelle piaghe di una malattia definita da strutture sociali e psicologiche, la schizofrenia. Ann Darrow, come mai prima, diventa a sua volta la nemesi di Kong, nel senso che ne risveglia una necessità sopita di affetto, calore umano, riconoscimento sentimentale tout court che assumono il valore dell’anello mancante di collegamento tra l’uomo e la bestia e trasformano quell’immagine sull’Empire State Building, il suo spirito più segreto e reale, nella cartolina di una scena d’amore melodrammatico, codificata nella mermoria cinefila, rivelata nella sua natutra nuda, livida, scarna. La Watts, il suo volto bello e imperfetto su cui si assomma l’espressività della Betty/Diane di Mulholland Drive e della Cristina di 21 grammi, usa una fisicità apparentemente minuta ma in realtà presente e plastica nei volteggi tra le liane e le lotte tra Kong e le creature preistoriche di Skull Island, lo sguardo come schermo/proiettore della leggenda nel suo manifestarsi e del suo rovesciamento in chiave realistica (la perfetta stilizzazione della New York degli anni ’30), la seduzione come condivisione non solo dell’attrazione tra corpi ma anche di una sorta di inquietudine tra anime, il peso di esistenze intrappolate nella gabbie dello show buisiness (il destino di Ann, costretta a fare da preda per King Kong, non è tanto dissimile da quello dello stesso Kong, costretto a fare da preda per il pubblico-cacciatore della società dello spettacolo). Jackson scopre i meccanismi che regolano la dinamica canonica della relazione di questa coppia anomala e guida la partita verso lo schema base di due giocatori, il cui squilibrio di poteri agli occhi di chi li vede dall’esterno, le incolmabili differenze vengono compensate dal doppio sguardo interno di chi ama e di chi è amato, il ricongiumento delle parti di un cuore schizofrenico. Poi arriverà la morte dei sogni, sogni che erano fatti di sangue e carne.


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