X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



IL DIAMANTE BIANCO

Pubblicato il 9 giugno 2006 da Marco Di Cesare


IL DIAMANTE BIANCO

«E’ difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l’oggetto irraggiungibile d’una quête senza fine.»
(Tratto dal saggio sulla Leggerezza di Italo Calvino, contenuto nel volume Lezioni americane)

Lib(e)rarsi in volo, con quanta più levità possibile: contro e al di là di ogni sforzo, per vincere sulla forza di gravità. Ma la ricerca della leggerezza costa fatica, perché l’uomo è troppo pesantemente ancorato a terra. E la difficoltà di volare si rispecchia nella difficoltà di sognare.
Eppure Werner Herzog sa sempre prendersi gioco di tali ostacoli, e sembra saperli oltrepassare con leggerezza, nonostante da sempre affronti impedimenti che a chiunque altro parrebbero insormontabili.

Il diamante bianco è un documentario che giunge in Italia pochi mesi dopo il meraviglioso docu-fictional L’ignoto spazio profondo (ma ad esso precedente, nella lavorazione, di oltre un anno). Si tratta della testimonianza dell’avventura intrapresa dal regista accanto a Graham Dorrington, un ingegnere aerospaziale inglese, a bordo di un dirigibile progettato da quest’ultimo, con cui hanno esplorato da vicino la foresta amazzonica della Guyana, volando al di sopra delle più alte guglie di una gigantesca lussureggiante verde cattedrale, in regioni ancora inesplorate.
Al centro della poetica di Werner Herzog vi è da sempre la fascinazione esercitata da mondi lontani ed “esotici”, dove la presenza dell’uomo è talmente sporadica da non essere riuscita a disturbare la primigenia perfezione dell’ambiente naturale.
Come Wim Wenders, suo compagno di cammino lungo i sentieri del Neuer Deutscher Film, Herzog è affascinato dal viaggio; ma, diversamente da Wenders, è attratto dalla meta in sé, più che dal tragitto da compiere. Per certi aspetti, inoltre, la sua biografia può essere avvicinata a quella di Jean Arthur Rimbaud, un altro enfant prodige dell’arte europea che ha amato i mondi lontani dal possibile quotidiano e vicini ad un incredibile di stampo onirico. Solo che in Rimbaud la fuga dall’Occidente ha coinciso con un allontanamento definitivo dalla Poesia, mentre in Herzog è l’energia stessa che dà vita alla sua arte.
Ma quel che più conta è che Herzog continua, anche in età adulta, ad essere un prodigioso poeta cinematografico.

Nei film di Herzog, i protagonisti sono spesso degli eroi, esseri bigger than life. Ma l’eroe in Herzog è anche un outsider e, soprattutto, un perdente: rappresenta l’uomo in lotta contro se stesso, e contro il destino. Ed è ossessionato dal suo sogno, che ostinatamente cerca di rendere reale, al di là di ogni ostacolo. Questa ricerca può assumere i connotati di una selvaggia volontà di potenza, come quella che muove Aguirre; oppure può prendere le fattezze di Fitzcarraldo, ovvero di un visionario chiuso nel sogno del suo poetico mondo, la cui unica volontà è portare la Cultura fin dentro l’Amazzonia, ma senza violentare l’essenza di quei luoghi.
Graham Dorrington è un peculiare eroe herzoghiano, certamente molto vicino alla tipologia fitzcarraldiana: non contro, ma a favore della Natura, con rispetto. Solo che in questo caso il protagonista del film proviene dalla Vita, che sembra voler imitare l’Arte.
Dorrington ha progettato una macchina che ha, come cuore che pompa energia nelle sue viscere, un motore piccolo e leggero, il migliore che lui abbia mai visto. Si tratta di un organo creato da un certo Lynch, un inventivo non-ingegnere: grandi studiosi non sono riusciti ad analizzarlo e a capirne le modalità di realizzazione, forse perché un accademico pensa in modo diverso da un outsider.
Dorrington è mosso dal voler espiare una colpa che sente come sua: quella di non essere riuscito ad evitare la morte dell’amico Dieter Plage, regista di documentari, durante una spedizione nella foresta pluviale di Giava nel 1993. Herzog gli chiederà e ordinerà, in una sorta di riproposizione del trauma, di partecipare al primo volo di collaudo: con nera e tragica ironia, esso presenterà vari problemi.

Herzog si è gettato in questa impresa, portando il suo cinema, e noi al suo seguito, nell’intrico della foresta, e nei cieli al di là di essa. Lui stesso è personaggio, non solo perché compare in scena assieme alla sua troupe, ma perché la sua è la voce narrante dell’intera vicenda (così come è accaduto in altri due suoi recenti documentari: Kalachakra e Grizzly Man).
Quello di Herzog è un occhio onirico, uno sguardo soggettivo, su ciò che di più oggettivo vi dovrebbe essere al mondo: la scienza, la tecnica e l’osservazione della natura. Qui il cinema, ovvero una tecnica al servizio dell’arte, è atto a scrutare: ma senza nascondersi, o mimetizzarsi. Perché l’occhio di Werner Herzog non è indifferente a quanto accade intorno a lui: sa commuoversi e farci commuovere alle parole di un uomo emozionato dalla possibilità che il suo sogno si realizzi, e sa ascoltare sia il silenzio della foresta pluviale che i discorsi dei nativi della Guyana sull’essenza della loro cultura. E perché Herzog, differentemente da un semplice naturalista, sa divagare dalla mera osservazione del lavoro di Dorrington, così come lo stesso Dorrington divaga, quando capisce che si trova lì non per studiare la Natura, ma per superare il trauma della morte di Plage.

La ricerca della leggerezza, navigare con incerta sicurezza, come se ci si volesse convincere di essere sempre appartenuti a quei luoghi. Come un bianco diamante appena estratto dalle miniere della Guyana, una gemma perfetta ora incastonata nella volta celeste. Alla maniera di Leonardo da Vinci, studioso del volo degli uccelli per creare macchine volanti, così Dorrington ha dato vita ad una creatura che cercasse nella Natura la sua perfezione, ispirandosi alla sagoma altamente aerodinamica di una goccia di pioggia. La forma dell’acqua, ovvero dell’elemento che ha una sua essenza precisa, ma che, allo stesso tempo, può assumere qualsiasi aspetto, per dare vita al dirigibile più piccolo e maneggevole mai costruito nella storia dell’aeronautica.
E perché non un pesce volante? Un essere panciuto dalla grande vescica natatoria piena di elio. E’ ciò che mi ha portato alla mente il profilo del Diamante Bianco. Probabilmente non sarà un’immagine pura ed elegiaca, come quella rappresentata dal maestro Stipetic, ma il suo richiamare il mondo animale potrebbe spiegare perché il White Diamond sia riuscito a volare oltre le cime degli alberi più alti della foresta pluviale, e non a incagliarvisi, come accadde tanti anni fa ad una nave in Aguirre, furore di Dio: perché questa era qualcosa di non organico alla Natura e di estraneo alla perfezione del Creato. Qualcosa creato dall’uomo, ma estraneo alle forme della Natura.

(The White Diamond) Regia e soggetto: Werner Herzog; fotografia: Henning Brümmer, Klaus Scheurich; montaggio: Joe Bini; musica: Ernst Reijseger, Eric Spitzer-Marlyn; interpreti: Graham Dorrington (se stesso), Werner Herzog (se stesso), Mark Anthony Yhap (se stesso); produzione: Marco Polo Film Ag; distribuzione: Fandango; origine: Germania e Gran Bretagna 2004; durata: 87’; web info: sito ufficiale di Werner Herzog.

Enregistrer au format PDF