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Il gioiellino

Pubblicato il 4 marzo 2011 da Simone Isola


Il gioiellino

Money/get away/get a good job with more pay and you’re O.K./Money, it’s a gas/grab that cash with both hands and make a stash/new car, caviar, four star daydream/think I’ll buy me a football team

Così cantavano i Pink Floyd in una canzone di molti anni fa riguardo al potere di alienazione del denaro. Un aspetto cardine della società contemporanea che agisce in profondità pur non avendo aspetti tangibili al grande pubblico. Quali sono i sistemi che regolano e controllano la grande finanza? Sono meccanismi che risultano incomprensibili per l’opinione pubblica e che pure investono drammaticamente la nostra quotidianità. Tra l’economia reale e la finanza si è aperta negli ultimi decenni una voragine incolmabile che inghiotte i nostri problemi in un buco nero monitorato da uomini non sempre all’altezza dei ruoli che ricoprono. I cittadini sono sensibili solo agli esiti di questi percorsi: successo o fallimento. In entrambi i casi, la massa si muove in modo umorale, portando sugli allori i presunti artefici di benessere e criminalizzando coloro che invece falliscono nella loro impresa. Così è successo per il crack Parmalat, uno dei casi più gravi di bancarotta fraudolenta e di aggiotaggio mai verificatisi in Europa, con un buco lasciato da Tanzi e co. pari a 14 miliardi di euro. Il patrimonio dei piccoli azionisti è svanito, tantissimi risparmiatori hanno ricevuto solo un parziale risarcimento per gli investimenti versati in bond Parmalat. Ed ecco che il patron Tanzi e il suo direttore finanziario Fausto Tonna diventano sinonimo della cattiva finanza, due uomini diabolici pronti a tutto pur di arricchirsi. Il loro caso, invece, rappresenta l’exploit negativo di un’economia che ha fatto del debito una strategia e del falso in bilancio uno strumento. L’opinione pubblica preferisce rimuovere questi aspetti, giudicati troppo lontani dall’economia reale, e concentrarsi piuttosto sui colpevoli. Andrea Molaioli ha pensato bene, per il suo secondo film, di prendere spunto dal crack Parmalat per raccontare alcuni personaggi e descrivere i principi che hanno guidato le loro scelte nefaste. La Leda, questo è il nome della società, è un’azienda ramificata nei cinque continenti, quotata in borsa, in espansione verso i mercati dell’est e nuovi settori. Il suo fondatore, Amanzio Rastelli, è il prototipo dell’ottimismo e del buon “made in Italy”. Intrattiene rapporti con la politica e la finanza, elargendo doni e regalie. Compra costosi calciatori per la sua squadra di calcio. Sistema ai massimi posti dirigenziali dell’azienda i parenti più stretti e alcuni manager di fiducia. Insomma, la Leda è un “gioiellino”. Peccato che, pur di non vendere l’azienda a gruppi stranieri, Rastelli e co. decidono di impegnarsi con banche e istituti finanziari. I nuovi prodotti non hanno il successo sperato e il gruppo di indebita sempre di più. Ernesto Botta, il direttore finanziario, uomo duro e privo di vita sociale oltre le mura del suo ufficio, asseconda e inventa per il suo padrone ogni trucco; per tirarsi d’impaccio le vendite vengono gonfiate, si ricorre alla finanza creativa per accollare i rischi sui risparmiatori allettati da cifre truccate. La barca non affonda fin quando naviga in acque amiche. C’è chi dall’interno percepisce il rischio ma non se la sente di perdere un ricco stipendio. Quando la voragine diventa troppo grande la Leda non ha più amici. Come un bambino quando confessa ai genitori la marachella, Rastelli comunica alle banche che la liquidità dichiarata dalla società non esiste: è stata creata con la scolorina, un listello di carta e uno scanner. Fine dei giochi. Le riunioni d’amministrazione sembrano partite di Risiko: “invadiamo il mercato della Russia”, “acquisiamo società sparse per il mondo”, ecc... Molaioli sceglie di avvicinarsi alla cronaca con il piglio dell’osservatore attento, acuto, che indaga i personaggi e le dinamiche aziendali lasciando allo spettatore l’incarico di giudicare il quadro tracciato. Chi sono i colpevoli si capisce subito, così come sappiamo che la loro lotta è destinata al fallimento. L’interesse vero sta nel culto aziendale professato da Botta e Rastelli, nell’ossessione per il lavoro che oscura ogni altro aspetto della loro vita, la totale mancanza di senso di responsabilità che li avvolge sino all’ultimo istante. L’azienda è l’unico loro habitat ma professano un familismo e una fede religiosa sincera, dichiarandosi pubblicamente “portatori di valori”; ma appena attraversano la porta dell’ufficio sono disposti con disinvoltura a compiere qualsiasi illegalità per tenere in piedi la baracca. Ernesto Botta poi è un uomo dal linguaggio sboccato, lanciato verso il nulla e portatore di nulla. Ha un rapporto con le donne volatile, limitato a velocissimi amplessi in ufficio con segretarie compiacenti. Quando Ernesto incontra Laura, la nipote del capo, scatta un’attrazione tra simili, tra “animali da capitalismo” privi di un’anima da condividere. Non a caso quando la ragazza viene trasferita a Milano la loro relazione si dissolve, come qualsiasi rapporto di lavoro. Quando Laura comunica ad Ernesto la notizia l’uomo sembra come voler scacciare con gli occhi qualsiasi frase che possa tradire un trasporto, un’emozione; la solita telefonata di lavoro infatti chiude la scena e la donna si allontana senza proferire parola.

Tutto questo racconta Il gioiellino. Racconta della nostra Italia senza uscire dalle stanze dei bottoni, perché proprio lì si è deciso il nostro presente. Tutto è visto con gli occhi di una banda di manager di provincia, un gruppo che si rivela inadeguato a contatto con gli scenari della finanza mondiale, armati di un inglese scadente e del semplice diploma da ragioniere. Cialtroni come i giocatori di poker da bar, che rilanciano ubriachi senza avere nulla in mano. Il senso di illegalità diffusa che oggi percepiamo viene da storie come queste, dove una vasta rete di complicità, di silenzi, ha coperto ogni nefandezza in nome dell’interesse generale. Il merito del film è di non prendere lo spettatore per la pancia, ma indurlo alla riflessione; a ciò concorrono la regia secca e senza fronzoli e la recitazione sottile e misurata di tutti gli interpreti, da Toni Servillo a Remo Girone, alla sorprendente e sensuale Sarah Felberbaum. E poi c’è l’atmosfera di una provincia italiana, cattolica e perbenista, che ha vissuto per oltre vent’anni il perpetrarsi di un’illusione fatta di inganni e vergognosi errori.


CAST & CREDITS

(Il gioiellino) Regia: Andrea Molaioli; sceneggiatura: Andrea Molaioli, Ludovica Rampoldi, Gabriele Romagnoli; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; musica: Teho Teardo; interpreti: Toni Servillo (Ernesto Botta), Remo Girone (Amanzio Rastelli), Sarah Felderbaum (Laura Aliprandi); produzione: Indigo, Babe Films; distribuzione: Bim; origine: Italia ; durata: 110’.


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