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IL MAMMUT RITROVATO

Pubblicato il 12 ottobre 2005 da Edoardo Zaccagnini


IL MAMMUT RITROVATO

E’ il 2005, è un venerdì e siamo a Roma, in un piccolo cinema del quartiere Flamino. E’ uno strano spazio, incastrato tra le fondamenta dei palazzi, coi muri ricoperti di un bianco dato alla svelta. Un posto senza centro, con un piccolo pub e una saletta che da un po’ di tempo distribuisce facilmente documentari. A dirigerlo c’è un uomo sui quaranta, con uno sguardo dolce e un po’ malinconico, una folta capigliatura brizzolata, e una brillantissima attività di produttore e distributore. E’ ottobre e piove; nella saletta è appena partita la proiezione di un lavoro dallo strano titolo: Il Mammut siberiano. E’ il documentario di un brasiliano che si chiama Vincente Ferraz e chi lo distribuisce è sereno, perché non è la prima volta che si imbarca in questo tipo di avventura: lo ha già fatto con La storia del cammello che piange, e lo aveva sperimentato ancora prima con Super size me, un documento ritmico, allarmante e di tendenza, sulla maleducazione alimentare nella società americana. Siamo nel 2005 e in Italia il documentario è al centro di uno strano dibattito: a Bologna, qualche mese prima, è stata convocata una riunione per stabilirne gli stati generali e un giovane critico, parafrasando provocatoriamente con “stati confusionali”, ha dato identità alla protesta di un popolo sommerso, iper-produttivo e totalmente abbandonato alla propria energia creativa. Sono anche gli anni dell’ “Effetto Moore”, del reale che pare illuminare lo schermo di magagne politiche e culturali, ed è l’anno in cui di Sabina Guzzanti ha “trionfato” a Venezia col suo pamphlet documentale. A Roma, in quel periodo, il suo W Zapatero è in cinque sale e il documentario si organizza in piccoli festival, prende coraggio, cresce. Facciamo un salto indietro. Andiamo in America, negli anni novanta. Non c’è più il muro di Berlino e nemmeno la guerra fredda. Ce ne sono altre di guerre, ed altre ancora ne cominceranno. Ci sono due registi americani, due di quelli importanti, due di quelli che tutto il mondo conosce, adora e riempie di tributi. Due di quelli che attraverso il cinema hanno imparato a raccontare il cinema: a scovarlo, rispolverarlo, leggerlo e rigenerarlo. Uno di questi è cresciuto nel quartiere italiano di New York, si chiama Martin Scorsese, e col documentario sta per raccontare certi suoi viaggi nel cinema che l’ha segnato. L’altro è Francis Ford Coppola, ed è quello che realizzato Il Padrino, lo stesso che ha costruito il capolavoro di Apocalipse now. Nelle loro mani è appena capitato un film particolare, uno strano film. Uno di quei film che l’occidente non ha mai visto, un film girato nel 1964, da un regista georgiano, a Cuba, con produzione sovietica. I due registi sanno di avere in mano qualcosa di importante, e uno dei due in seguito dirà: “se avessi visto prima questo film, il mio, probabilmente, sarebbe stato un cinema diverso”. Ma cosa c’è di così importante dentro questi 140 minuti? Facciamo un altro salto indietro, e andiamo al 1964, a L’avana, Cuba. Qui, cinque anni prima, un movimento rivoluzionario ha rovesciato la dittatura di Fulgenzio Batista con un movimento partito dalle montagne della Sierra Maestra. A guidarlo è stato Fidel Castro, che ora sta avviando una riforma agraria contro il monopolio che la United Fruits ha sulla principale risorsa dell’isola: la coltivazione della carta da zucchero. Castro si guadagna in fretta l’ostilità degli stati uniti, si rivolge all’Urss, (che compera lo zucchero cubano a prezzi molto superiori a quelli del mercato internazionale) e indirizza il regime cubano, sempre più verso una direzione socialista. C’è la guerra fredda e a L’avana sono appena sbarcati un noto direttore della fotografia, sua moglie, e un regista georgiano che quattro anni prima ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes, con un film dal titolo Quando volano le cicogne. Tutti e tre dicono di sentirsi vicini alla Nouvelle Vague, al movimento neorealista, e in particolar modo a Cesare Zavattini. Uno di loro, il direttore della fotografia Urusevsky, porta con se un negativo ad infrarossi, un negativo particolare, che all’epoca è ad uso esclusivo dell’esercito sovietico. Lui dice: “nel tentativo di ottenere particolari tonalità di colore”. Ma chi li ha chiamati e perché sono lì? Torniamo agli anni novanta, ai due registi, al talento, alla passione cinefila e al potere mediatico delle loro parole. Basta dire una volta “Capolavoro” e il film riprende a muoversi e respirare. Inizia a parlare. Dice di chiamarsi Soy cuba, di essere nato nel ‘64, per mano del grande regista Mikhail Kalatozov, da un accordo tra il governo cubano e quello sovietico. Dice di essere stato rifiutato da entrambi i paesi che l’hanno voluto: troppo enfatico per il comunismo sovietico della Guerra Fredda e troppo romantico per i cubani, distanti dalla visione che il georgiano aveva dato della loro rivoluzione. Per loro, per i cubani, la rivoluzione era stata di più di quello che si mostrava con Soy cuba, qualcosa che la bellezza del film, con la sua fotografia e la sua eleganza formale, non erano riusciti a raccontare. Un cinema accecante, secondo loro, un cinema di Nouvelle Vague, di neorealismo, di Zavattini e di avanguardia sovietica: un cinema che a Scorsese e Coppola, incanta gli occhi. Da recuperare, da mostrare a tutto il mondo. Da far vedere a chi ama la storia della cultura cubana, agli "archeologi", agli studiosi delle cinematografie nascoste o dimenticate, o semplicemente a chi ama il cinema di una macchina da presa che sale sui palazzi, si infila in un party su un terrazzo, che entra in un laboratorio di sigari con la delicatezza di un pesce, che si tuffa dentro una piscina.. Un film storico, politico, di propaganda da interpretare. Un film girato in due anni, una lezione di tecnica cinematografica da assimilare e da ammirare. Costituito da quattro storie incentrate su abusi, violenze e ingiustizie collocate negli ultimi giorni del regime batistiano. Un film importante. Torniamo al 2005, a Roma, dentro un piccolo cineclub a due passi da via Cola di Rienzo. Non piove più, c’è un pubblico di gente per bene e danno Soy Cuba, il capolavoro ritrovato. All’inizio del film c’è scritto Fandango: come sul documentario del cammello, come su quello dei McDonalds americani, e come su quello del Mammut siberiano. C’è una relazione? C’entra qualcosa? C’entra eccome. C’entra che un documentario esca insieme ad un film così particolare per accompagnarlo, spiegarlo, e chiarirne l’importanza. C’entra perchè il Mammuth Siberiano di Ferraz è un film su Soy cuba di Kalatozov, sulla sua sorte e sulla sua forza visiva. “Quando l’ho visto la prima volta” ha detto Ferraz , “a colpirmi sono stati la straordinaria forza visiva e l’interpretazione che un georgiano, così culturalmente e geograficamente distante, ha fornito dei caraibi e della storia cubana. A indurmi a questa avventura è stato il singolare destino che la sorte ha riservato a questo film. E poi si tratta di una metafora perché con questo documentario parliamo di molte cose che si sono estinte: si è istinta l’Unione Sovietica, è finita un’epoca e anche un certo tipo di cinema come quello si può dire finito”.


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