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Il mattino ha l’oro in bocca

Pubblicato il 2 marzo 2008 da Alessandro Izzi


Il mattino ha l'oro in bocca

La distanza che separa autorialità e mestiere è breve ed indefinibile. È un’ambigua linea grigia posta al limitare di due campi apparentemente molto, troppo simili tra loro. La attraversi in un batter di ciglia che neanche te ne accorgi. E poi stai lì a guardarti intorno un po’ spaesato perché il cielo sulla tua testa è rimasto quello e quelle sono le costellazioni che ti guidavano il cammino ancora un passo prima. Eppure qualcosa è cambiato intorno a te. Nel paesaggio, nel giro d’orizzonte d’improvviso più limitato, nel selciato sul quale trascini i piedi sempre più incerto.
E’ questa l’impressione che ci coglie alla fine della proiezione di Il mattino ha l’oro in bocca. Come se Patierno, regista che avevamo amato in Pater familias, avesse attraversato questa linea d’ombra e fosse entrato in quello spazio grigio in cui non riconosci più l’autore eppure intravedi il solido lavoro di chi l’arte la conosce bene e ha saputo metterla da parte. Non puoi dire che il film sia brutto, ma neanche ti si ferma addosso, come polvere sui pori della pelle a farti trattenere il respiro per un momento col pensiero di assistere ad un piccolo miracolo laico fatto d’espressione e di immagini.
La cosa che ti disorienta di più è che sembra che Patierno questo confine l’abbia attraversato in piena consapevolezza. Come ci fosse un progetto nel passare dal cupo, ruvido, sporco realismo del film precedente alla media, giocosa, divertita astrazione di questo. Come se questo disorientamento che ti coglie come una vertigine leggera fosse il vero scopo di un artista che gioca con le aspettative del “suo” pubblico.
Era ovvio che lo spettatore più avveduto andasse al cinema a vedere Il mattino ha l’oro in bocca montando sugli occhi il filtro distorcente di Pater familias. Era scontato che ci si aspettasse, nella storia anche drammatica di un personaggio di talento che cade nelle spire della malattia del gioco d’azzardo, il colpo di coda, il gesto registico bizzarro e visionario di uno che vuol mettere la firma in calce alle sue inquadrature. Non ci aspettava tanto il dramma, che pure, ci si dice, respira forte nelle pagine del romanzo, e che era stato il segno della maestria del precedente film. Ci si aspettava quello che poi trovi solo in pochi momenti di una proiezione che scorre via fluida e lineare come non mai: uno sguardo personale.
Ed era sbagliato, non possiamo non ammetterlo con una punta di vergogna, guardare il film con nel cuore ancora Pater familias. Perché non è giusto pretendere che un autore ripeta se stesso solo perché ci era tanto piaciuto la prima volta, che non sperimenti strade nuove, che non "cerchi". Eppure ti resta il dubbio che Patierno, con questo passo in più nel suo percorso personale, non stia davvero cercando, ma stia solo ingannando l’attesa tra il primo ed il terzo film che speriamo arrivi presto.
E lo fa senza muovere un passo dalla linea di confine che attraversa continuando, però, a guardarsi indietro. Una linea media come medio è il tono di una pellicola senza salti, senza prospettive. Dove anche il dramma dell’indebitato cronico che brucia la sua vita in nome di un vizio che è una malattia si affronta col sorriso sulle labbra di che sa che la fine, in fondo è nota. Ed è lieta. Dove mancano i bruciori di stomaco dello sberleffo amaro perché il protagonista è, a conti fatti, una simpatica canaglia che non si giudica. La prendi così come ti arriva e simpatizzi con lei in ogni singolo momento del racconto, sapendo, come tutti i personaggi che la incontrano e, per un po’ ne condividono le sorti, che è solo un bravo ragazzo che si sporca le mani per bisogno di adrenalina e di azzardi.
Il paradosso del film, il suo di fascino al di là dei limiti di una confezione pulita, ma standard, è che nasce strutturalmente come il flash-back di una persona che, però, è capace di guardare solo avanti. Non sta mai nel presente, Baldini, non vive mai l’attimo che brucia. Anche quando, all’inizio del film, lo vediamo scavare la sua fossa minacciato da una pistola alle cinque di mattina, il suo pensiero è che alle sette comincia la diretta radiofonica. E quando il colpo fatale sta per essere inferto e il grilletto premuto è il suo funerale che (pre)vede e non la dura concretezza della morte. Tra il passato del flash-back e il futuro delle aspettative si consuma, così, l’utopia di una storia che il cinema può raccontare sempre e solo in quel presente da cui, però, è estraneo il protagonista. Ed è in questa scollatura tra personaggio e sguardo del narratore che si ritrova, distante, un senso d’autore.
Per il resto il film è una superba prova d’attore (Quanto è bravo Elio Germano a sparire nel suo personaggio!) ed un prodotto che modaiolo non è, ma ti strizza l’occhio spesso e volentieri. Qualche volta anche tutti e due.


CAST & CREDITS

(Il mattino ha l’oro in bocca); Regia: Francesco Patierno; sceneggiatura: Francesco Patierno, Marco Baldini; fotografia: Mauro Marchetti; montaggio: Renata Salvatore; musica: Pivio & Aldo De Scalzi; interpreti: Elio Germano (Marco), Laura Chiatti (Cristiana), Corrado Fortuna (Rosario), Martina Stella (Cristina), Carlo Monni (Padre di Marco), Gerardo Amato (Frankie), Donato Placido (Giggetto), Gianmarco Tognazzi (Danny), Umberto Orsini (Zio Lino (strozzino)); produzione: Rodeo Drive; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2008; durata: 100’


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